Istruzione e Università al femminile. Qualità di Stefania Giannini

di Fedora Quattrocchi
Pubblicato il 15 Febbraio 2014 - 18:51| Aggiornato il 26 Febbraio 2020 OLTRE 6 MESI FA
Istruzione e Università al femminile. Qualità di Stefania Giannini

Stefania Giannini

Stefania Giannini è una linguista, glottologa e politica italiana di Lucca. Un buon Ministro della Istruzione Università e Ricerca? Noi pensiamo di si. Anzitutto per il tipo di ateneo in cui è stato rettore: la difficile Università per stranieri di Perugia– dal 2004 al 2013 – in una città in cui è andato decrescendo l’uso della buona lingua – non solo italiana – e si è allargato lo spazio della malavita e della droga: questo ci porta ad una grande considerazione che è l’importanza per un ministro di aver operato in condizioni universitarie difficili, diciamo non prettamente “bocconiane” o “normaliste” o “santanniane” , dove i ragazzi magari hannno provenienze più agiate e “corazzate”.

Parimenti premiante sarebbe un ministro che provenisse dalle complesse difficoltà di grandi atenei o centri di ricerca, in grandi città metropolitane e dai politecnici “popolari” in crisi, dove insegnare, fare ricerca o tenere a bada migliaia di studenti inferociti dalle prospettive che a loro spettano, a seguito del baratro politico in cui siamo scesi, è molto difficile. Almeno un sottosegretariato tecnologico-strategico spetterebbe! Va bene la cultura ma purtroppo i governi cadono su…. infrastrutture strategiche e quel che ci gira intorno, tipo titolo V della Costituzione.

Ma torniamo alla Giannini: la lingua, il linguaggio, la grammatica, i percorsi metalinguistici, il cambiamento linguistico, l’interlingua ci riportano ad una dimensione fondamentale della nostra crescita culturale e scientifica: quella primaria del dialogo e dell’etica. Da cui questa Italia deve ricominciare. Questo anche perchè la tecnologia, le scienze esatte, le scienze della Terra, devono passare di nuovo la forche caudine dell’etica, dell’onestà intellettuale e del linguaggio-dialogo.

Importante il passo che poi Stefania Giannini ha fatto: il passaggio dalla scienza/cultura alla politica. Meglio arrivarci dopo 20 anni di studio che da giovanissimi solo con le scuole di partito – peraltro ora mancanti e trasformate in fondazioni per ogni singolo “illuminato” politico che sia. La formula fiscale della “fondazione “alletta. Solo alcune fondazioni si salvano, tra queste la fondazione sviluppo sostenibile.

Le parole d’ordine di Stefania Giannini nei suoi scritti divulgativi politici della campagna elettorale dello scorso anno sono state:

i) “Paese statico bloccato” (Vero diciamo noi ! Ma lo è soprattutto sulle infrastrutture di pertinenza ingegneristico-geologico-strutturale e chi rischia son coloro che scientificamente provano a parlare davanti alle popolazioni inferocite dal NIMBY – Not In My BackYard e quindi invitiamo la nuova ministra, se lo sarà, a dotarsi di sottosegretariati scientifici piuttosto potenti in questi settori dello “scibile” umano);

ii) “la conoscenza serve a cambiare le coscienze” (benissimo ma attenzione ai processi di valorizzazione del merito come sotto spiegato, altrimenti le coscienze perdono autostima e premiare “l’incosciente” diviene catastrofico psicologicamente per i “coscienti”);

iii) “Principio di responsabilità” (sacrosanto quanto difficile tra discipline hard che hanno a che fare con i rischi rispetto a quelle più soft);

iv) “Differenza tra diritto alla laurea e diritto allo studio” (sacrosante parole di Stefania Giannini, ma questo passa attraverso i fondi ed i fondi si ottengono lasciando lavorare industrie ed infrastrutture, con un dialogo in cui ad esporsi gli scienziati non vogliono andare più…. se non premiati);

v) “Meccanismi di vera equità” (sacrosanto anche questo, la dissertazione sotto è ben esplicativa, anche rispetto a differenze di genere nella scienza, ricerca ed insegnamento in generale); vi) “Mobilità fisica ed intellettuale internazionale” (sacrosanto anche questo ma vi è un abisso tra il dire ed il fare: mettiamo alla prova la nuova ministra);

vii) Massima competitività internazionale (questo ci dispiace e riguarda sostanzialmente le discipline tecnologico-scientifiche e molto meno quelle umanistiche, sperando che lo iato tra le due si accorci il più possibile nel futuro in una sorta di ritrovato “umanesimo scientifico”);

viii) “La combinazione della ricerca e della didattica è fondamentale” (sacrosanto anche questo, ma se poi il tempo di didattica non viene valutato nella abilitazione a professore universitario, quando essa è svolta come tutor nei centri di ricerca, è tutto inutile e nessun ricercatore vorrà più far da spalla ai baroni).

Comunque ben venga un ministro donna si intende. Infatti sarebbe un premio al genere e sottolineiamo quanto già detto altrove: sebbene la percentuale di ricercatrici in Europa sia in aumento, la loro presenza nelle discipline e carriere scientifiche rimane ancora insufficiente. Le donne rappresentano soltanto il 33% dei ricercatori europei, il 20% dei professori ordinari e il 15,5% dei direttori delle istituzioni nel settore dell’istruzione superiore. A parlare sono i dati raccolti nell’ultima edizione dell’indagine She figures pubblicata nel 2013 dalla Commissione europea.

Secondo l’indagine, le donne rappresentano circa il 40% dei ricercatori nel settore dell’istruzione superiore, il 40% nel settore delle amministrazioni pubbliche e il 19% nelle imprese. Mentre in tutti i settori il loro numero ha conosciuto una crescita più rapida rispetto ai loro colleghi maschi (un aumento del 5,1% all’anno per le donne contro un aumento del 3,3% per gli uomini dal 2002 al 2009), le ricercatrici incontrano ancora difficoltà nel raggiungere incarichi decisionali, con una media di una sola donna ogni due uomini nei comitati scientifici e di gestione in tutta l’UE.

Nel 2010 la percentuale di studentesse universitarie (55%) e laureate (59%) ha superato quella degli uomini, ma questi ultimi sono in numero superiore tra gli studenti di dottorato e i dottori di ricerca (le donne sono, rispettivamente, il 49% e il 46%). Inoltre, nella scala della carriera universitaria, le donne rappresentano il 44% dei ricercatori con un dottorato nei primi gradi della carriera e soltanto il 20% dei ricercatori nei gradi più alti. L’insufficiente rappresentanza delle donne è ancora più evidente in campi quali la scienza e l’ingegneria.

Un punto importante da sottolineare è che le donne nella scienza sono spesso quelle che scelgono gli argomenti più difficili da studiare e da trattare in termini di:

i) originalità dell’argomento,

ii) conflittualità scientifica, sociale e psicologica dell’argomento da capire o addirittura da contrastare,

iii) capacità di evidenziare dei conflitti di interesse negativi, non etici e di ritorno commerciale della attività di ricerca stessa, quale ostacolo all’interesse per la ricerca pura, incondizionata e per il “bene comune”;

iv) strutturazione multidisciplinare, anche a costo di pubblicare meno – per i grandi sforzi verso il management e verso la creazione di nuove figure professionali ibride, ma creando così nuove sinergie prima impensabili ed orizzonti inesplorati (nel nostro campo si pensi a letture parallele e simultanee di dati geofisici, geochimici, geologici, idrogeologici, spessi letti separatamente e senza prospettive d’insieme, ma esempi analoghi si possono trovare in ogni ramo dello scibile). E’ del tutto evidente che il recente concorso alla abilitazione all’insegnamento universitario – soprattutto per ordinari – non ha premiato il management ma spesso e volentieri ha premiato il numero di pubblicazioni e non la qualità della figura complessiva del candidato, che per certi argomenti non può dare un gran numero di pubblicazioni soprattutto se gli argomenti sono applicativi (es. ingegneristici).

La situazione in scienze della terra ad esempio – in questo ultimo concorso – è stata emblematica: un ricercatore INGV che non ha passato il concorso per abilitazione universitaria è invece chiamato ad insegnare in Inghilterra, un altro, sempre di INGV, non idoneo secondo l’abilitazione in scienze della Terra, insegna però effettivamente già ad ingegneria e cosi via.

Fare scelte di ricerca più difficili – tipicamente capita al femminile – spesso va a scapito del cosiddetto H-Index, vale a dire, alla fin fine, del numero delle pubblicazioni (che in tutti i concorsi di ricerca pubblica è il parametro scelto arbitrariamente dai Ministri e ministeri come il preferito, e non si capisce perché, visto che esso è parametro che semplicemente dice le volte che un ricercatore/tecnologo viene citato, includendo anche le volte che viene citato negativamente per aver pubblicato delle cose inesatte) e va invece a favore della qualità e “strategicità” delle pubblicazioni stesse.

È chiaro che se un ricercatore/tecnologo ha basso H-Index ed al contempo si dedica ad argomenti stra-trattati da diecimila altri allora è chiaro che siamo sempre in presenza di mediocrità. Ma si tenga presente che i “nuovi argomenti” e le discipline scientifiche poco esplorate ovviamente hanno minori “visite” dei potenziali “citanti” la pubblicazione medesima. Un genio o un semplice cultore/cultrice di un argomento nuovo, come fa ad esser citato/a? E magari invece – per rimanere nel nostro campo – schiere di appartenenti ad una certa disciplina fanno ben numero per potenziali citazioni. L’emulazione del vincente è nella scienza una modalità di “branco” tipicamente maschile. Si tenga presente nel dar cariche di comando: di tempo per risolvere problemi complessi “non di branco” ne è rimasto ben poco.

Ormai, per le sfide richieste dal Pianeta e per la domanda variegata e complessissima di beni planetari – anche sociali – non deve più contare il numero delle pubblicazioni ma ben altro: le visioni d’insieme e la sensibilità scientifica d’insieme. Tutti o quasi i ricercatori/tecnologhi, soprattutto in una mentalità di potere “al maschile” (“avere” e non “essere”) cercano voracemente, al momento attuale, di fare “numero” di pubblicazioni, con ritorno di H-Index a brevissimo termine, a costo di farlo con ripetizioni dello stesso titolo del paper da sottomettere – leggermente modificato – o su rivista leggermente diversa, come ambito. Addirittura alcuni pubblicano su Nature o su Science con delle semplici review monodisciplinari, pensando di acquisire “potere scientifico” e “potere di controllo sulla scienza” dei giovani.

Mentre in una mentalità scientifica più al femminile – da tradurre rapidamente nelle carriere con il nuovo Ministro dell’Istruzione – si spera che “potere scientifico” sia considerata la capacità di lavoro di squadra e di equipe, per risolvere rapidamente un problemiscientifici complessi a scapito appunto di parametri “intensivi” come H-Index di pubblicazioni mono-tematiche. A tal fine utile sarebbe per il ricercatore/tecnologo di forte etica professionale, non essere in alcun comitato editoriale – per non aver il cosiddetto “voto di scambio a suon di H-Index”. Cosa diversa è stare i comitati scientifici di riviste che non danno H-index e colà scambio non ve ne può essere.

Assistiamo oggi, soprattutto in Italia, nei grandi enti di ricerca, ad uno svilimento della capacità di fare ricerca di altissimo livello di tipo innovativo in squadra, che a nostro avviso, al giorno d’oggi, svilisce quel che conta di più: risolvere, anche con la ricerca complessa, i complessi problemi dell’Umanità-con Umanità, anche a costo, come Albert Einstein, di non pubblicare nulla per anni, avere H-Index nullo per anni, e poi uscir fuori con la “Teoria della Relatività” del caso. Più cronache parlano di Albert Einstein come di una persona molto “femminile” nella sua sensibilità scientifica: non un “macho” della ricerca… e soprattutto egli aveva un H-Index nullo praticamente fino a quasi morte avvenuta (chi lo citava, se nessuno prima di lui aveva scritto tale teoria della relatività?).

Ovvio che pur di entrare nel mondo della ricerca maschi o femmine che siano, qualche compromesso si è disposti a farlo, ma nel futuro si spera non sia così. Negli USA chi ha fatto la tesi di laurea nella città A, non può fare il dottorato che nella città B, o non può aver cattedra che in città C, etc… ma questo è tutto da vedere se non facilita più gli uomini… che possono spostarsi con al seguito le giovani mogli incinte a cambiar città (cosa molto più rara da parte dei giovani mariti, che certo non si schiodano per seguire una moglie ricercatrice incinta!).

Insomma, tutto da rivedere nella riforma della Ministra Gelmini per abilitazione dei professori ordinari 2012-2013 ed associati e tutti i concorsi attuali sarebbero da azzerare, alla luce della crisi economica se pensiamo che migliaia di ricercatori italiani sono dediti

i) a cercar fondi di ricerca senza poter pubblicare

ii) a ricerca assolutamente inutile per le sfide planetarie più urgenti.

La riforma Gelmini certo non ha fatto molto per promuovere la suddetta “vision femminile” della ricerca, come definita in queste righe, e lo si è visto in diverse occasioni, soprattutto quando si è trattato di mettere persone ai posti di comando, che più convenivano seguendo vision ben diverse dal merito, con effetti sul Paese che sono sotto gli occhi di tutti: la fuga generalizzata dei cervelli.

Si propone qui, al dunque, alla possibile nuova ministra e come il suo curriculum dimostra, una abolizione totale dell’attuale modo di progressione delle carriere “al maschile”, l’abolizione totale di parametri H-Index o consimilari per i livelli apicali quando non accompagnati da vision manageriali e multidisciplinari di grande portata, se si vuol risolvere la crisi energetico-climatica-economica e etico-sociale del Paese o in generale del Pianeta. Essi sono infatti parametri di giudizio semplificati assolutamente insufficienti per far accedere a certe carriere di ricerca apicali, chi si dedica sul campo e nei laboratori, in sinergia con tante figure professionali, ad argomenti complessi, con la massima etica professionale ed onestà intellettuale.