Alluvione liti opere ferme: vecchi e nuovi incubi di Genova

di Franco Manzitti
Pubblicato il 22 Gennaio 2016 - 07:27| Aggiornato il 24 Gennaio 2016 OLTRE 6 MESI FA
Alluvione liti opere ferme: vecchi e nuovi incubi di Genova

La piattaforma di cemento che copre lo sbocco dello scolmatore sulla spiaggia di Genova (dal Secolo XIX)

GENOVA – Alluvione è parola che a Genova conoscono tutti, un incubo che incombe su una parte di Genova, che corrisponde alle zone più popolari, costruite sul greto di torrenti che solcano lo Appennino in una brevissima e ripida corsa verso il mare, in secca per gran parte del tempo, capaci di generare onde di morte appena piove un po’ più intensamente del solito. Così nasce una nuovissima versione di una lotta di classe tipicamente genovese, dominata dalla nuova paura dei genovesi, quella delle opere incompiute.

Nove abitanti indicati per nome e cognome e indirizzo, di uno dei quartieri più eleganti della città, Albaro, che sarebbe come dire, fatte le proporzioni, Beverly Hills, Santa Monica, strade di bella residenza, in riva all’unica Promenade sul mare della città, Corso Italia, contro i quattrocentomila che abitano le delegazioni sotto scacco di alluvione, i transpopolari e sovrabitati quartieri di Marassi, san Fruttuoso, nel triangolo delle Bermude della alluvione incubo, tra il torrente Bisagno e il torrente Fereggiano.

Eccolo lo scontro riassuntivo della ultima contesa genovese, la più spietata e disperata intorno alla piattaforma di cemento sorta come un fungo sulla spiaggia del bagni “Squash”, di proprietà di Alessandro Puri, nota figura di imprenditore genovese di nobile e impegnata famiglia, per nascondere il cantiere che sta scavando lo scolmatore, destinato a salvare quella popolazione a rischio alluvione, tre, quattro chilometri di tunnel nella pancia genovese, che sfocerà su quella spiaggia.

Un tetto all’imboccatuta del tunnel con una superficie imponente, all’altezza della passeggiata a mare, sopra le ruspe, le talpe, gli scarichi di terra, un ecomostro che deturpa il water front, ma salva l’ambiente dalle scorie di un cantiere in mezzo agli ombrelloni e alle sdraio.

“Nove sulla sdraio e quattrocentomila nel fango”, c’era scritto sugli striscioni di protesta della più inedita manifestazione, organizzata nella Genova dei cortei, delle ribellioni di questi tempi cupi, con la contrapposizione tra quei nove che hanno presentato l’inevitabile ricorso al Tar e le popolazioni alluvionabili.

Ricchi contro poveri, con tanto di identikit dei primi ( la moglie di un notaio, una armatrice molto importante, ecco i nove firmatari: Marco Risso, Giovanni Tavilla, Alessandra Grimaldi, Aldo Grimaldi, Giuseppina Nervi, Elena Buttiglione, Franca Valenti, Paola Ferretti e Jacopo Maione), ammesso che siano ricchi quelli che stanno a Albaro e poveri quelli che abitano Marassi e San Fruttuoso. Ricchi solo perchè abitano i quartieri della solida borghesia della città di Levante, lontano dal centro e lontanissimo dal Ponente delle ex fabbriche, dei tombamenti portuali, residenti in ville e superappartamenti con vista sul monte di Portofino e la leggiadra Riviera di Levante.

Poveri solo perchè stanno in quelle strade nazionalpopolari del triangolo della alluvione, densamente popolate, che basta un acquazzone per far tremare e giustamente: quattro anni fa il fango e l’acqua del Fereggiano, uscito di forza dal suo alveo strozzato nel cemento della collina straurbanizzata, uccisero sei persone, due bambini piccoli e un anno fa il Bisagno, con la sua ondata di straripamento si portò via un uomo e distrusse, per la decima volta, un quartiere intero, Borgo Incrociati, di botteghe e viuzze strette sulla sua “rive droite”. 45 anni fa i morti furono molti di più ma non abbastanza per smuovere qualcuno a fare qualcosa, ora qualcosa si cerca di fare ma…

Ora aspettando il Tar, che sta diventando il vero arbitro della lunga decadenza genovese, con i suoi verdetti blocca cantieri, stoppa operazioni immobiliari, giuste o sbagliate, perfetto capolinea giudiziario emetti-sentenze chiave sulle svolte cittadine, la città si spacca in due lungo una linea che non era mai emersa, quella di una apparente conflitto di classe, ora che le classi, forse, non esistono più, ora che la società semmai è glocal e multi etnica, ora che tutto si sta restringendo in una poltiglia sociale.

A Albaro, quartiere probabilmente ad alto reddito di partenza, il tema vero è lo svuotamento delle case, l’invecchiamento della popolazione. Il parroco della più importante chiesa della zona, Santa Teresina, ha recentemente denunciato che nei suoi confini ci sono almeno cinquecento appartamenti vuoti. Si muore di lunga vecchiaia e non ci sono neppure eredi in grado di gestire patrimoni immobiliari in lenta estinzione. Case vuote, spese di amministrazione troppo alte per essere lasciate a gestire da figli e nipoti con destino largamente più incerto dei padri, patrimoni economici rosicchiati da un paio di generazioni sottooccupate o niente occupate, eserciti di badanti che spingono lungo la Promenade o nei viali interni, anche quelli più riservati e laterali, carrozzelle con anziani sempre più vicini ai novanta e ai cento.

Una melting pot di assistenza, che era cominciato con i filippini e gli indiani, poi è andato avanti con i sudamericani, poi si è arricchito di rumeni o rumene e dove ora fanno ingresso le italiane, spinte da una crisi divorante posti di lavoro in ogni settore. Così il cerchio si chiude: una volta le italiane, magari immigrate dal Sud o dal Veneto, non ancora nel suo boom, arrivavano a servizio nelle famiglie benestanti di Albaro, ora a servizio badante ci arrivano quelle espulse dal ciclo produttivo. Sempre a Albaro o in Circonvallazione a Monte, l’altro quartiere borghese di Genova.

Nei quartieri della alluvione il mondo, invece, è diverso dallo stereotipo che ha fatto accorrere qui a vedere quella piattaforma-ecomostro i giornalisti da tutta Italia. Saranno stati quartieri popolari, da ceto medio e medio basso, di residenze meno eleganti, più affastellate sotto le colline del degrado ubanistico, dove la cementificazione anni Cinquanta-Sessanta-Settanta ha divorato tutto e costruito case e strade una sull’altra in incroci da incubo urbanistico, ma oggi questa area è una delle più vive della città per gli incroci della popolazione, per la densità intorno a una delle stazione ferroviarie principali, quella di Genova Brignole, dove arriva la metropolitana, già progettata verso l’ospedale di san Martino il più grande della Liguria.

Certo: stanno in mezzo a quel triangolo della alluvione con le spade di Damocle del Fereggiano e del Bisagno che oggi, in questa stagione strasecca, sembrano rivi perduti, pietraie con cespugli, neppure un rivo d’acqua che scorra sotto i ponti attraversati senza più neppure controllare il corso inesistente dell’acqua, ma semmai vedette per denunciare i tappi della vegetazione che crescie selvaggia nel deserto o le discariche abusive.

Perché basta un temporale autorigenerante, una bomba d’acqua e quella secchezza, quel deserto si trasformano, come è avvenuto anche lo scorso settembre, in un’onda mostruosa che arriva al massimo livello e rischia lo straripamento. Basta un’ora e mezza di pioggia dal look equatoriale e l’incubo di alluvione riparte.

Ricchi contro poveri, quartieri eleganti contro il top del popolare? La contrapposizione si sta modificando da sola e non solo perchè il primo dei nove ricorrenti si è già chiamato fuori ed ha ritirato la firma dal ricorso. Uno dei leader della periferia più periferia genovese, Aldo Besana, rianimatore del quartiere di Ponente, ex simbolo del grande degrado urbano, il Cep di Prà, si è schierato con i ricorrenti, denunciando il fatto che quella piattaforma è stata costruita senza nessun controllo ambientale, paesaggistico proprio come un fungo e non si può piazzare un ecomostro sulla spiaggia numero uno senza neppure avvertire. Altro che annunciare, chiedere i permessi….

E lo stesso concetto di violazione delle procedure di permesso ambientale è stato ribattuto in una intervista televisiva sulla emittente più seguita in Liguria “Primo Canale”, da Alice Salvatore, la leader del Movimento Cinque stelle, la consigliera regionale preferita da Beppe Grillo, che ha difeso il diritto di ricorrere.

Insomma lo schema stereotipato si rompe, perché la partita in realtà non è solo piattaforma si o no. Va bene che quell’orribile manufatto, che deturpa la vista a mare, è programmata fino all’estate del 2018, quando il cantiere avrà finito il suo scavo e lo scolmatore da 45 milioni di euro (già finanziati da Europa, Regione e Comune) sarà finalmente terminato, va bene che la sua funzione in qualche modo può essere anche definita di protezione ambientale, perché difende dai rumori e dagli effluvi dello scavo le spiaggie circostanti e il nobile quartiere, ma la paura è un’altra e qualcuno incomincia a confessarla.

Si teme che di fronte a un’opera tanto attesa, tanto discussa, tanto invasiva nella città, capiti quello che Genova conosce bene. Lo stop ai lavori per qualsiasi motivo finanziario, ambientale, storico artistico. Si teme l’incompiutezza dell’opera. A Genova attualmente c’è un cantiere davanti all’ingresso dell’ospedale di San Martino, fermo da anni: uno scavo enorme, una voragine coperta da lamiere in uno dei punti più cruciali della città, all’ingresso, appunto, dell ‘ospedale.

Dovevano costruire un autosilos, ma le imprese si sono fermate per mancanza di fondi. La contesa su altro mega parking ha deturpato uno dei giardini più belli, quello dell’Acquasola, nel centro ombelicale, sopra la statua equestre di Vittorio Emanuele II e in faccia allo ieratico monumento di Giuseppe Mazzini. Dagli anni Ottanta, Comune, imprese, Sovraintendenze, comitati si sono scannati sull’operazione parcheggio. E intanto nel giardino mezzo sequestrato, mezzo violentato dalle ruspe, alberi di alto fusto e storia secolare venivano tagliati, marcivano.

Una delle strade più importanti di collegamento tra gli assi viari e il quartiere di Albaro, Via Montezovetto, è stata per un quinquennio terremotata per la costruzione di un altro megasilos sotterraneo, che poi si è fermato per il crak dell’azienda costruttrice (una delle più importanti della città) e per la grande crisi delle richiesta di acquisto box sul mercato.

E si potrebbe continuare con la strada principale di sbocco al mare della città, viale Brigate Partigiane, quella che porta alla Fiera del Mare, alla foce del famigerato Bisagno, sempre lui, cantierata da un decennio per il rinforzo della copertura, chiusa e aperta a singhiozzo per le beghe davanti ai Tar tra le ditte appaltatrici, in un trionfo di parcelle per gli avvocati, sempre il Tar, sempre i lavori, i parcheggi, gli scavi.

Questo temomo i nove ricorrenti, diventati otto con anche qualche nome prestigioso della attuale storia economica cittadina, che attendono l’imminente verdetto: che un bel giorno tutto si fermi, il cantiere, la galleria con magari al suo interno la talpa meccanica (è gia successo venti anni fa quando incominciarono i lavori poi fermati da una tangentopoli locale) e sopratutto con l’ecomostro in bella vista.

Che tutto si fermi nella eternità liquida della trasformazione genovese, come sta accadendo anche nella galleria Mazzini, presunto salotto del centro genovese, paragonabile alla galleria Alberto Sordi a Roma e alla galleria del Duomo a Milano per postazione, dove esiste una impalcatura da dieci anni esatti, una colossale infrastruttura che i commercianti della stessa galleria festeggeranno con una gran festa beffarda e amara, torta, candeline e incazztura colossale.

In fondo che tutto parta e si stravolga per poi fermarsi lo pensano anche gli altri ricorrenti storici di questo particolare momento genovese, i presidenti dello storico Yacht Club Italiano, Carlo Croce, del circolo “Elpis”, Pietro Dagnino e i leaders del Rowing Club e della Lega Navale, che hanno piazzato il loro ricorso al Tar contro l’inizio dei lavori del Blue Print, il progetto di Renzo Piano per collegare con canali, passeggiate a mare, darsene e altre bellezze, il porto storico con la morente zona della Fiera del mare.

Anche in questo caso, già raccontato da Blitzquotidiano, gli oppositori appartengono in maggioranza alla Genova vip, quella che si riunisce nelle nobili sedi di questi circoli, elegantemente vestita in blazer blu e cravatta con i colori sociali e non vuole sconvolgimenti all’assetto storico, il Club, le barche, siano a vela o siano armi a quattro e otto, siano barche da pesca.

Ma anche qua non è una battaglia di classe, tra elites sociali che si arroccano nei propri privilegi di caste intoccabili e opere concepite nell’interesse della città, da quello primario anti alluvione a quello di uno sviluppo turistico-terziario. Dipingerla così è una forzatura, magari anche un po’ giusticata per certi stili di attacco, un po’ snob e un po’, appunto, élitario, al problema dei ricorrenti. Più in generale i match riguardano i cambiamenti di una città incartapecorita, bloccata nei suoi processi decisionali, troppo spesso arenata nelle stanze del Tar e dopo del Consiglio di Stato, come una balena spiaggiata chissà dove.

Intanto chi paga, oltre alla città e al suo necessario sviluppo, sono, per esempio i proprietari e i concessionari della spiaggia, che ospita la grande terrazza eco mostro, i bagni “Squash”, che non solo si sono visti arrivare lo sconquasso del cantiere a tagliare per metà il loro territorio, ma che ora rischiano che tutto quell’ambaradan, compresa la copertura sulla quale hanno promesso opere di compensazione per risarcire almeno con qualche spazio il danno dell’invasione, si fermi in attesa di sentenze, sospensive, ricorsi.