Angelo Bagnasco, e i funerali di don Gallo a Genova: piazza sostituisce comizi

di Franco Manzitti
Pubblicato il 29 Maggio 2013 - 08:18 OLTRE 6 MESI FA
Il cardinale Angelo Bagnasco dà la Comunione a Vladimir Luxuria

Il cardinale Angelo Bagnasco dà la Comunione a Vladimir Luxuria

GENOVA – Sua Eminenza il cardinale Angelo Bagnasco, genovese dei caruggi, ha mantenuto un sorriso leggero e si è fermato con in mano il testo dell’omelia che stava pronunciando davanti alla bara chiara di don Andrea Gallo posata ai suoi piedi, quando lo hanno sommerso di colpi di tosse e poi di fischi e infine lo hanno azzittito, cantando “Bella Ciao”, fuori ma anche dentro la nobile chiesa di Nostra Signora del Carmine nel centro di Genova.

Hanno detto: un cardinale che balla con i lupi.

Se lo aspettava l’arcivescovo presidente della Cei che lo attaccassero, che lo azzittissero, che fosse un rischio andare a celebrare i funerali del prete degli ultimi, del “Gallo”, il don tra i più noti del paese, osannato da legioni di prostitute, trans, alcolisti, tossicodipendenti, emarginati, ai quali aveva dedicato la sua vita, convogliando su se stesso una popolarità tale da farlo considerare oramai non più un prete, un don appunto, ma quasi una star del sistema mediatico?

O non aveva calcolato, Sua Eminenza, quel rischio, entrando in quella chiesa per prudenza dalla porta laterale, che si apre su una di quelle creuze mediane, che scendono dalle colline genovesi verso piazze strette, strade strette e che si chiama Salita dell’ Olivella, silenzioso e riparato dalla folla dei seimila-settemila, che avrebbe riempito e circondato la chiesa dalla quale quarantuno anni fa era partita la rivoluzione di Don Gallo, il prete border line?

Impossibile pensare che questo cardinale così composto, misurato, attento, quasi ieratico, cresciuto a Genova, vice parroco di una chiesa di una zona molto più borghese di quella del Carmine, poi promosso negli Anni Novanta vescovo di Pesaro e poi Ordinario Militare e poi arcivescovo della sua città e l’anno dopo addirittura presidente della Cei al posto di Camillo Ruini, non avesse immaginato cosa significava presiedere quel funerale.

Quel funerale, al quale la bara di Andrea Gallo era arrivata sulle spalle dei suoi ragazzi, dopo due giorni di una specie di trance collettiva intorno alla figura e alla morte di quel prete, diventato tanto famoso da essere considerato forse il genovese più noto insieme con Renzo Piano e la buona anima di Fabrizio De Andrè, il cantautore della “Buona Novella” era la conclusione di una lunga storia di dissenso nella Chiesa.

E poi quella storia del Gallo era cominciata proprio lì, con la sua ribellione al perbenismo magari solidale e ordinato ai cattolici genovesi, sotto il regno del cardinale Giuseppe Siri, che alla fine aveva allontanato don Andrea dal Carmine e lo aveva esiliiato all’isola della Capraia, indirettamente dirottandolo nella piccola Chiesa di san Benedetto, dove il prete degli ultimi avrebbe fondato non solo la sua Comunità, ma anche la sua quarantennale fama di sacerdote-contro, di prete capo corteo, di prete comunista, di prete da marciapiede.

Così quando il cardinale nella sua omelia, che diversi commentatori avrebbero poi definito più un pezzo da Wilkypedia sulla storia di Don Gallo, che la commemorazione di un vescovo per un suo prete defunto, ha citato quel cardinale-principe Siri, alludendo al fatto che Andrea lo aveva considerato un padre e un benefettore, gli argini si sono rotti.

Cardinale azzittito, predica interrotta e ripresa solo con l’accorato intervento della Lilly, storica assistente di don Gallo, che aveva impugnato il microfono e sgridato i ragazzi fuori e dentro la chiesa: “ Il Gallo non approverebbe, il Gallo rispettava la sua chiesa e il suo cardinale!”

E la domanda ha incominciato a rimbalzare fuori da quella chiesa genovese, investendo l’oggi ipersensibile mondo cattolico dove ogni sguardo, ogni parola di Papa Francesco sembrano mutare gli equilibri non solo della Curia romana, ma dell’intero ordine costituito di santa Romana Chiesa.

Ma Bagnasco ha solo rispettato il comandamento che gli suggeriva di celebrare quel funerale, come quello di ogni suo sacredote, portando la sua porpora nella tana dei lupi, che “Il Foglio” in un acutissimo articolo di Stefano di Michele ha chiamato “lupacchiotti, sarchiaponi, multicolorati tra l’ostia e il Che,” inginocchiatri tra la sacrestia e l’antagonismo, tra il crocefisso e le bandiere No Tav e della anarchia e degli ultras genoani della Fossa dei Grifoni?

O ha spinto un po’ più in su la posta del suo gesto, affrontando i due popoli di don Gallo, quello inginocchiato nei banchi e quello che beveva birra e cantava di fuori, fino alle estreme conseguenze di farsi azzittire e di dare la comunione senza battere ciglio a Vladimir Luxuria e Regina Satariano, sotto gli occhi di Alba Parietti, delle istituzioni schierate con la fascia tricolore, dei parenti e degli amici, ma anche dei soliti notti a caccia di un ulteriore singulto di popolarità?

Il problema è se Bagnasco sia uscito ridimensionato da quella chiesa, aggiungendo alle difficoltà della Cei, che Papa Francesco vuole ridimensionare nel suo nuovo ordine vaticano, meno romano più sudista, più dalla fine del mondo che Oltre Tevere, la contestazione personale nell’ombelico di Genova.

O se, invece, il suo silenzio sorridente mentre i lupi o i lupacchiotti ululavano, la sua decisione di andare al Carmine in quel giorno lo abbia infine elevato nel suo ruolo, concedendogli un momento di gloria, magari simile a quelli che il suo predecessore-modello Siri aveva vissuto in epoche diverse, quando si era imposto come leader della conservazione negli anni ruggenti del post Concilio.

A Genova la contestazione a Bagnasco, quell’omelia interrotta e poi ripresa, quella foto della trans Luxuria che riceva della sue mani l’ostia consacrata sono stati come una scossa. I commemtatori più frettolosi hanno addirittura scritto che il cardinale aveva sbagliato a citare Siri, come se schiaffeggiasse la memoria di don Gallo, altri hanno osservato che quella omelia era fredda e non appropriata e che per fare così, tanto valeva non andare a celebrare quei funerali.

Perchè Bagnasco non aveva anche riconosciuto il ruolo di frontiera svolto da Andrea Gallo contro i disagi profondi della società, la droga, l’alcool, le altre dipendenze, la ludopatia? Perchè non gli aveva riconosciuto, dall’alto dei suoi paramenti, la patente di “prete non da salotto”, proprio nei giorni in cui Papa Francesco lanciava i suoi anatemi contro il clero troppo paludato, attaccato al potere, appunto contro i “preti da salotto”?

In molti corridoi e appartamenti vaticani, nel riserbo di Congregazioni, sacrestie e uffici studi religiosi e laici la posizione del cardinale genovese è stata apprezzata, perchè il senso profondo del suo metterci la faccia e i paramenti è stato interpretato come quello che deve fare un vescovo con i suoi preti.

Don Gallo era, prima di tutto il resto, un prete e riconosceva l’autorità del suo vescovo, di “questo”, come aveva riconosciuto anche quella di Siri che lo aveva esiliato, ma poi aveva tolleratro il suo ruolo salvifico e border line. Quel Siri che quando Il Gallo, andava a trovarlo negli anni iniziali della Comunità di San Benedetto, gli chiedeva come andassero le cose e quando il suo “prete da marciapiede” gli confessava le immancabili difficoltà di gestione con tante spese da sopportare per curare e dar da mangiare, apriva la cassaforte della Curia genovese.

Bagnasco è andato a ricordare questo in quella chiesa, citando anche Siri perchè se no il suo fronteggiare il popol del Gallo non sarebbe stato sincero e autentico, osservano i sostenitori dell’arcivescovo genovese, ammirandone la coerenza.

Quello di don Gallo era un grande funerale e gli equivoci forse nascono proprio anche da quello che la cerimonia funebre sta diventando in Italia da tempo, una specie di rito collettivo, che ha sempre meno a che fare con il defunto e diventa un spettacolo kolossal, nel quale si mescola tutto, il ricordo, la preghiera, il dolore, ma anche la fiera della vanità e la mobilitazione.

Mentre Bagnasco officiava il rito, a fianco di don Ciotti e di don Vitaliano, e di tanti altri sacerdoti, fuori dalla Chiesa del Carmine di Genova c’era certamente molta commozione, compreso l’ateo presidente della Regione Claudio Burlando, commosso fino alle lacrime, ma anche tanta mobilitazione e la rabbia potente di tanti antagonisti che cercano sempre uno sbocco per esprimersi e lo trovano dove possono, nelle occasioni che capitano.

E ci si muove da una regione all’altra, da un territorio all’altro, se si apre un cantiere della Alta Velocità e se c’è un prete amico da salutare o se c’è una fabbrica che chiude o se una tragedia ammazza degli innocenti, come proprio a Genova è successo due settimane fa con lo schianto della Jolly Nero della flotta Messina contro la torre piloti del porto.

Le piazze dei comizi politici sono vuote, come san Giovanni a Roma, nella chiusura di Ignazio Marino candidato sindaco del Pd. Ma le piazze dei funerali sono piene, se la morte celebrata racchiude tanti significati, come quella di don Andrea.

E se un cardinale arcivescovo, che va a celebrare il funereale di un suo prete, che è stato tante cose, ma in fondo era un suo prete, infila la sua testa, il suo zucchetto dentro a un forno come questo gli equivoci, i fischi fannno parte del programma. E i contrapposti significati della presenza cardinalizia si possono confondere.