Expo di Milano, invasione di 16 milioni. E i gufi?

di Franco Manzitti
Pubblicato il 2 Ottobre 2015 - 07:20 OLTRE 6 MESI FA
Expo di Milano, invasione di 16 milioni. E i gufi?

Padiglione Marocco, 4 ore di fila per visitarlo

MILANO – Quattro ore di coda a biscia tutto intorno al padiglione-fortezza berbera per visitare il Marocco, dove ogni stanza cambia clima, odori e sapori. Tre ore per entrare in Cina, due ore e mezzo per l’Italia e specchiarsi nella sua bellezza quadridimensionale, tempo indefinito per l’Afganhistan, superstar dell’Expò, mentre incomincia l’ultimo mese.

Sono probabilmente il visitatore numero 16 milioni settecentomilaquattrocento quattordici o quindici, chi lo sa, e “navigo” dentro il mostro Expò, in quella piatta periferia milanese con lo skyline che cambia continuamente, con l’occhio critico di chi da mesi o anni ha ascoltato il gracchiare degli uccelli del malaugurio e ha visto appollaiarsi i gufi di ogni branco o parrocchia.

Doveva essere un flop, non doveva neppure partire, meglio piantarla lì, urlava il Matteo Salvini padano, di fronte a scandali, mazzette e abissali ritardi dei lavori. Ricordo le beghe dell’estate 2008, sette anni prima, intorno alla figura di Paolo Glisenti, che l’allora sindachessa di Milano, Letizia Bricchetto Moratti, aveva piazzato nel posto-chiave dell’appena conclamato Expò Universale, salvo poi accantonarlo e posso testimoniare direttamente il momento chiave nel quale il Bureau Internazionale delle Esposizioni di Parigi, aveva sentenziato che veramente toccava a Milano, perché ero lì, in un tempo diverso da oggi, quando l’ombra imprevedibilmente lunga della Grande Crisi Globale era solo la bolla immobiliare americana appena esplosa.

E un anno prima che tagliassero i nastri dell’inaugurazione, con il cavalcante premier Matteo Renzi scatenato sul Decumano, grande viale-anima della super Mostra dell’alimentazione, ho assistito allo scandalo con le foto dello scambio di mazzette tra uno dei grandi costruttori dell’Expò del gruppo Maltauro e il faccendiere genovese, Sergio Catozzo, che intascava la bustona all’ombra dei cantieri.

Quindi, al mese numero cinque dell’Evento, quando settembre è finito e mi tuffo oltre i tornelli, porto sulle spalle tutta questa “bibliografia” di come siamo arrivati qua, alla periferia di Rho per vedere come il messaggio alimentare che il mondo di oggi lancia, che il pianeta terra offre dentro ai padiglioni dei paesi, nei cluster, è stato declinato.

Le code, si comincia, appunto, dalle code, che sono ovunque, anche solo per catturare un hot dog e una birra in un posto di ristoro tra il padiglione francese e quello della Costa d’Avorio. Le code come bisce che avvolgono ogni padiglione o che avanzano a ondate sul Decumano e sulla sua traversa del Cardo, il secondo viale che taglia questo milione di metri quadrati di esposizione.

La società di gestione ha annunciato che abbiamo superato i 16 milioni di visitatori, di gente che ha passato i tornelli di accesso e che ora è possibile nell’ultimo mese di apertura arrivare ai fatidici 20 milioni, la cifra che farebbe cantare vittoria e lancerebbe il premier a caccia dell’ultimo gufo da asfaltare. Il fatto è che, passata l’estate rovente dall’inospitale clima torrido, ora la febbre dell’Expò sta salendo vertiginosamente: l’ultimo week end, che era quello conclusivo di settembre, ha portato quasi 500 mila visitatori, facendo raggiungere alla settimana un milione secco. E non è solo una tendenza da week end, perché ci sono dei lunedì con più di centomila ingressi e martedì e mercoledì, giornate segnalate tra le più tranquille, sono quelle nelle quali ti impali per quattro ore se vuoi entrare nel Marocco, profumato e climatico, dove passi dal secco delle montagne dell’Atlante , all’umido del deserto del Nord e allo scirocco dell’Atlantico. Per ora la giornata record è stata sabato 25 agosto con 259 mila ingressi, il boom dal giorno dell’inaugurazione.

La vedi questa folla che sale e scende i grandi viali e ti colpisce non solo per come accetta le code, come un fatto ineluttabile che fa parte della visita, manco fossero tutti inglesi, ma anche per come sceglie il suo percorso, mediando tra il tempo di attesa e l’interesse da soddisfare.

Non impazziranno tutti per vedere il padiglione di Timor Est, ma anche questo entra nei programmi, perchè è un pezzo di mondo che qui puoi respirare. E’ una folla senza più la facilmente individuabile appartenenza geografica attraverso stili di abbigliamento e atteggiamenti-comportamenti, perchè il mondo che peschi ora, tra queste decine di migliaia di “ospiti”, è veramente globale.

Sono viaggiatori che possono permetterselo, arrivano da ovunque, in maggioranza dai paesi europei, è evidente, ma devi ascoltare la lingue per capire se sono italiani o no e tra questi, evidentemente i più numerosi, devi aguzzare l’orecchio per distinguere la regione di provenienza. Quello che ti colpisce è l’uniformità, appunto globale, che riguarda anche l’atteggiamento nella visita, il tipo di attenzione, il tipo di educazione a stare in mezzo a una massa così larga, a mettersi in fila, a non prevaricare, a dialogare con gli steward senza mai nessuna esasperazione.

Che mondo è questo che viene a vedere il mondo coniugato dai paesi espositori nel tema dell’Expò, mangiare, vivere, alimentarsi, produrre, raccogliere, seminare, distribuire, vendere, seguendo la geografia dei padiglioni che di per se è già una dichiarazione di identità con l’architettura del padiglione stesso. Gli specchi della Russia, le strutture desertico-arabeggianti dei paesi del Golfo, i granai dell’Argentina, l’arditezza dell’Italia, il grande terrazzo degli Usa e via avanti in una cavalcata nella quale fai fatica a coniugare le scelte dei paesi con l’idea corrente della sua condizione economica e sociale?

E’ appunto un mondo globale, prevalentemente di età più che matura, visibilmente allenata a questo tipo di turismo da esposizione, mostra, museo, visita, escursione, ma dove il fronte giovanile è una ventata continua di scuole, classi anche di bimbi quasi infanti tenuti sotto stretto controllo, in divisa o con fazzoletti colorati per non perderne uno solo , con maestre-guide che serrano le fila e fanno navigare i piccoli come sula cresta delle onde della folla che avanza e poi si sparge. Tutti strettamente tenuti per mano, scortati minuziosamente e chissà quanto consci di questo immenso territorio nel quale il mondo si mostra, ma dove loro sono portati un po’ di forza, come a fare un compito, e sognano di arraffare un cono gelato o un sacchetto di patatine.

Che fine farà tutto questo, ti chiedi, spaziando la folla e le architetture, traguardando un orizzonte che viene stampato come il massimo del precario, ma che è anche quasi definitivo nelle sentenze che escono sul “respiro della terra”, “l’alito” come si titola nel Padiglione Zero, il paradigma introduttivo di tutta l’Expò, dove fai il tuo ingresso e capisci quello che andrai, coda dopo coda, a scoprire nella pancia dei singoli padiglioni, ma più a fondo nella storia del mondo.

Sparirà tutto, certamente, ma chi ha visto, dopo la sua ora di coda, come potrà dimenticare il film introduttivo che racconta la storia dei due pastorelli in dimensione tridimensionale fantasmagorica, che raccontano con la loro vita, in un posto che potrebbe essere in ogni continente e in ogni paese, la pesca e la pastorizia: le origini del cibo da mangiare, qualcosa che accomuna ogni popolo, ogni cultura, le sue radici più profonde?

Anche il conto alla rovescia per decidere che ne sarà di questo panorama di carton gesso, steso tra i 1700 metri del viale Decumano e i 350 metri del Cardo, è incominciato perchè le istituzioni vogliono stabilire “prima” della chiusura, la destinazione dell’area.

C’è da stabilire come il Governo di Roma, quello che sicuramente sventolerà il successo universale, entrerà nell’operazione che il Comune e la Regione hanno già impostato, immaginando l’area smontata dai padiglioni.

Ci sarà una “Città della consocenza” con il fulcro dei Padiglione dell’Italia, ci sarà una specie di Sylicon Valley di imprese e di star up. Il fatto nuovo è che la società proprietaria dei terreni, che si chiama Aerexpò, ha votato per rompere il contratto con gli advisor incaricati di progettare il disegno urbanistico successivo all’Evento. Come scrive “Repubblica”, edizione di Milano, la ragione della rottura sarebbe il ritardo del disegno “futuro” dell’area, pronto solo a novembre, a cura delle società che hanno vinto la gara relativa.

Se il progetto non è ancora pronto e se, nel frattempo, il Governo di Roma entra nell’operazione, i piani devono cambiare.

Su tutto questo soffia inevitabilmente, il clima di successo che il numero dei visitatori alimenta giorno dopo giorno e che arriverà al massimo il 31 di ottobre quando il sipario calerà. E quando tutto finirà e il grande vuoto inghiottirà la spianata di Rho, forse ci sarà qualcuno che cerca di afferrare l’effetto-bellezza, comunque scaturito dall’Expò, sublimato in quegli specchi che riflettono, attraverso centinaia di foto, le immagini dell’Italia, la potenza, la creatività, i limiti, appunto, della sua bellezza paesaggistica, naturale, architettonica, artistica che fa provare una vertigine.

Con l’appendice di un salone che immagina il “mondo senza l’Italia”, con il mappamondo violentato e gli esperti che raccontano il vuoto. L’appendice che per ora non si vede è quella di Milano senza l’Expò.