G8, la verità tra Scajola e Bianco. Genova 2001, odissea tra torture e violenze

di Franco Manzitti
Pubblicato il 15 Aprile 2015 - 07:10 OLTRE 6 MESI FA
G8, la verità tra Scajola e Bianco. Genova 2001, odissea tra torture e violenze

G8, la verità tra Scajola e Bianco. Genova 2001, odissea tra torture e violenze

ROMA –  E’ vero che il governo Berlusconi, insediato l’11 giugno del 2001, a solo 40 giorni dall’inizio del terribile G8 di Genova, ereditò la preparazione dell’evento dal governo precedente, quello di Prodi, che aveva schierato al Viminale il catanese ministro post democristiano, Enzo Bianco. Ma non è vero che la tattica e la strategia per affrontare una emergenza sempre più grave, dopo gli scontri di Napoli tra polizia e no global e dopo la morte di un dimostrante “sparato” dalla polizia a Stoccolma, dove erano comparsi per la prima volta i blac blok, e dopo gli scontri violenti di Seattle negli Usa, sugli stessi temi della globalizzazione, furono semplicemente subiti dal nuovo governo e dal suo neo ministro dell’Interno, l’imperiese Claudio Scajola, appena insediato al Viminale.

La preparazione del G8 nelle caldissime giornate di giugno e di luglio 2001 non si limitò alle estemporanee visite del presidente Silvio Berlusconi, che piombò a Genova per assicurarsi che tutto fosse in ordine e che i Grandi della terra fossero degnamente ospitati nel Palazzo Ducale, sede dell’incontro, rivelatosi poi così infausto. Berlusconi realizzò blitz veri e propri e decise particolari “fondamentali” come lo spostamento delle fioriere, la creazione delle siepi all’interno dei Saloni e sopratutto ordinò di celare con grandi quinte di tela, i palazzi limitrofi alla sede del G8, le cui facciate non erano, secondo il presidente del Consiglio, degne di far da contorno a un simile Evento. Furono così coperti alcuni palazzi di Piazza Matteotti e altri scorci di strade e caruggi che avrebbero mostrato a Bush, Putin, Blair e Chirac e agli altri leader mondiali il degrado del centro storico genovese.
Ma la misura più discussa del Cavaliere fu quell‘ordinanza che vietava di stendere i panni fuori dalle finestre, con le tradizionali sventolate di lenzuola, biancheria, mutande e altri capi di abbigliamento, che sono l’abituale panorama popolare di ogni città italiana.

Sembrava al presidente che quell’esposizione famigliare compromettesse il decoro del Grande Incontro. L’ordinanza fu inghiottita con grandi polemiche e suscitò reazioni e interventi anche di noti scrittori e cultori delle più consolidate tradizioni mediterranee. Ci fu chi, in polemica diretta con Berlusconi, stese le proprie mutande dalle finestre nel centro di Genova, violando il divieto.

E’ chiaro che questa “preparazione “ di contorno era solo marginale, rispetto a tutto il resto di un vertice che, mano a mano che ci si avvicinava alla data della sua apertura, nel pomeriggio di giovedì 20 luglio, corteo dei Migranti, avrebbe fatto sfilare a Genova 300 mila persone. Tutto diventava più minaccioso e carico di funestre profezie.

La condanna gravissima della Corte Europea per i diritti dell’uomo e il riconoscimento delle torture commesse dalla polizia italiana, durante l’assalto alla scuola Diaz, sabato notte 22 luglio, a vertice praticamente concluso, il giorno dopo la morte di Carlo Giuliani, ha riportato di attualità le misure con le quali un evento rivelatosi tanto pericoloso venne preparato e consente di misurare come le responsabilità e gli errori nella gestione dell’ordine pubblico sono equamente distribuibili tra il governo subentrante e quello precedente, che aveva consegnato ai successori la patata bollente del G8 più incandescente nella storia dei vertici mondiali.

Vale ricordare che quando il governo, presieduto da Massimo D’Alema, annunciò nel 1997 che la sede del G8 sarebbe stato Genova, la notizia fu salutata sopratutto nel capolugo genovese con una euforia anche un po’ irresponsabile e con poche prese di distanza. La pioggia di miliardi, che sarebbe arrivata per preparare degnamente un vertice, che mostrava Genova nel mondo, nell’evento più importante della sua intera storia, parve una manna dal cielo a tutti, meno forse a chi già immaginava che, se l’invasione fosse stata troppo massiccia, una città particolare come Genova, con un centro storico vasto e impenetrabile, i palazzi del potere posti nel cuore della città stessa, gli accessi poco agibili per l’isolamento cronico di un grande porto di mare, chiuso nel suo golfo dalle colline e da passi appenninici e con poche e obbligate vie di comunicaazione in terra, questa città, insomma, avrebbe rischiato.

Il rischio crebbe a dismisura, mentre cresceva la mobilitazione in tutto il mondo sui temi della globalizzazione, che incominciarono a scuotere ovunque, in tutti i continenti, le coscienze di chi voleva strappare il controllo del mondo e dei suoi delicati equilibri al consesso dei cosidetti Grandi. Il rischio crebbe ancora di più quando quella protesta no global inizialmente molto dialettica, massiccia e diffusa, ma per definizione pacifica, la protesta degli Agnoletto, dei Casarini, delle cosidette tute bianche, innescò un fronte più violento, di chi voleva usare la presunta mobilitazione pacifica per colpire duro la società moderna con tutte le sue contraddizioni.

I famigerati blak bloc, il gruppo nero, che saldava all’esasperazione di quella contestazione anche fini molto meno nobili, più spinti, quelli della distruzione per la distruzione, della sfida frontale al potere costituito, della estremizzazione, della professionalizzazione della violenza, diventarono lo spauracchio che incominciò a aleggiare sulla Superba nei giorni precedenti la vigilia. Era un rischio tanto incombente e pesante che la sua portata smascherò la congenita debolezza della città prescelta per l’incontro degli otto Grandi e, di conseguenza, per le dimostrazioni popolari che si stavano preparando ovunque.

Quale scenario migliore per dimostrare che una città nell’ombelico dell’Europa Nord Occidentale, un grande porto mediterraneo, la quinta città italiana, raggiungibile o meglio penetrabile facilmente al di fuori delle sue strette vie di comunicazione, palcoscenico ideale per “assediare” i grandi chiusi nel loro Palazzo, al bordo dei caruggi misteriosi e bui, sul confine delle strade di scorrimento di una metropoli lunga e stretta, tra la collina e il mare, la centralissima via XX Settembre che sboccava sul palazzo Ducale stesso, la piazza De Ferrari, che di per se richiamava come una calamita i dimostranti, arena storica dal mitico 1960 anti Tambroni delle rivolte popolari.

Un mitico questore, che domò negli anni Sessanta la rivolta dei “Boia chi molla” di Reggio Calabria, Umberto Santillo, fedelissimno del ministro dell’Interno derll’epoca, il genovese Paolo Emilio Taviani, al Viminale per quasi dieci anni della sua carriera, grande stratega dell’ordine pubblico, aveva definito la piazza genovese come la più difficile da difendere, la più impervia di fronte a forti ondate di protesta, figuriamoci di fronte all’obiettivo di colpire, incendiare e distruggere come fecero poi i blak Bloc. Come ci si preparava a questo assalto, che inizialmente poteva apparire solo un assedio pacifico, una serie di cortei per mostrare ai Grandi l’ondata di una protesta “universale” in tuta bianca, con i popoli della terra schierati a rivendicare i loro diritti?

Al passaggio dei poteri tra il governo Prodi e quello di Berlusconi l’allarme era tanto montato che i nuovi ministri, spaventati dai rischi che si stavano profilando e che avevano fatto prevedere perfino la trasformazione di caserme di pubblica sicurezza direttamente in carceri, come il famigerato distaccamento di Bolzaneto, la mobilitazione di decine di magistrati per affrontare ondate di arresti, la mobilitazione degli ospedali, pronti a accogliere centinaia di feriti, la chiusura degli spazi aerei e marittimi, pensarono addirittura di trasferire il G8 dalla sede scelta. Prima si pensò di passare dal grande palazzo nel centro di Genova a bordo di una nave che poteva tranquillamente fare rotta nel golfo ligure per le trenta ore del vertice, poi addirittura si ipotizzò il trasloco nel Forte Begato, una delle grandi costruzioni settecentesche che fanno parte della muraglia genovese, sulle alture. Il forte era appena stato restaurato.

Erano idee quasi disperate per cercare di allontanare i Grandi dalle invasioni dei cortei pacifici e violenti, ma che avrebbero svelato la debolezza dell’apparato difensivo, mobilitato con 35 mila uomini, tra poliziotti, carabinieri, guardia di Finanza e corpi speciali. Scartate per mille motivi queste soluzioni, il governo Berlusconi mise mano al piano che avrebbe “chiuso” la città, creando la Zona Rossa intorno al palazzo del vertice, inacessibile se non agli addetti ai lavori, la Zona Gialla intorno al centro, per tenere a bada i cortei.
In quel modo il centro storico con all’interno il palazzo Ducale, veniva letteralmente ingabbiato dai cancelli e intorno al cuore di Genova veniva costruito un vero e proprio muro alto tre metri, con il filo spinato in cima, con poche porte accessibili solo a chi era straautorizzato.

Reti, muraglie di ferro, catenacci e non solo: centinaia di cecchini piazzati sui tetti del centro con le armi pronte a sparare su eventuali manifestanti che avevano sfondato, minacciando avvicinamenti al palazzo Ducale, dove gli Otto Grandi dovevano decidere i destini del mondo. Non solo: il neo governo varò anche la decisione di piazzare nei punti chiave della città, negli snodi viari importanti, lungo le direttrici delle strade principali, grandi container presi dal porto, per rendere meno agibili i percorsi, per spezzare la strada dei cortei, per stendere una seconda cintura di difesa più larga, che, comunque, ostacolasse le marce verso il centro, verso il cuore di Genova, che i manifestanti avevano annunciato di voler assaltare pacificamente e che i blak bloc, molto meno esplicitamente, programmavano di mettere (come misero) a ferro e fuoco, arrivando al punto non solo di sfondare, spaccare vetrine, negozi, banche, auto in sosta, ma anche di appiccare il fuoco al carcere di Marassi, nella mattinata di venerdì 21 luglio, poche ore prima della morte di Giuliani, il punto della massima tensione.

Tutte queste misure di frapposizioni furono varate dal governo Berlusconi, anche se Scajola oggi si ostina a precisare che il pacchetto era stato confezionato dal pool di Enzo Bianco. La controprova sta nello stupore ed anche nella durissima protesta del sindaco di Genova dell’epoca, Giuseppe Pericu, che apprese dai giornali la misura della invasione dei container nelle sue strade. Non gliene avevano parlato e quando poi l’incendio degli scontri e delle violenze esplose e gli assalti alla Zona Rossa stavano per far crollare il muro in Piazza Dante, con conseguenze incalcolabili, perchè eravamo a pochi passi dal Ducale, se non ci fosse stato lui, il sindaco dal sistema nervoso di ferro, con un megafono in mano a fermare l’assalto, la storia del G8 sarebbe stata ancora ben più sanguinosa di quel che purtroppo fu.

Nessuno può dire se furono le misure adottate dai nuovi governanti a caricare di ulteriore tensione la polveriera del G8. Nessuno può dire se si poteva agire diversamente, per consentire al G8 di svolgersi e alla protesta di maifestarsi senza scontri e violenze. Certo è molto strano che in quei giorni terribili fossero a Genova il ministro della Giustizia, il leghista Castelli, che si complimentava con i torturatori della caserma Bolzaneto, il vicepresidente del Consiglio Fini, che stazionava per ore e ore nelle caserme dei carabinieri, salvo giustificarsi oggi un po’ ingenuamente, con un ritardo dell’aereo che doveva portarlo a casa. Ed è molto strano che non fossero in loco il ministro dell’ Interno Scajola, che era arrivato alla vigilia a cercare di rassicurare i poliziotti e il capo della Polizia De Gennaro: controllavano tutto da Roma. Chi comnadava in quei giorni l’ordine pubblico a Genova e con quali obiettivi?

Le decisioni europee oggi, le sentenze dei processi coraggiosi di ieri, dimostrano che la storia del G8 di Genova non è mai stata scritta completamente, perchè la politica non ha mai voluto indagare, nominando una commissione d’inchiesta parlamentare, come è stato chiesto inutilmente per quindici anni. Non ha mai voluto il governo Berlusconi II e III, non ha mai voluto neppure il governo Prodi, che era succeduto nel 2006. Colpo di spugna politico, mentre le inchieste e i diversi processi andavano avanti e arrivavano alle sentenze nei diversi gradi di giudizio.

Oggi il reato di tortura, riconosciuto dall’Alta Corte europea della difesa dei diritti umani, ha obbligato di gran furia il Parlamento italiano a introdurre nel suo ordinamento quel reato, “a babbo non morto, ma stramorto”. E se erano torture quelle inferte dal Reparto Mobile di Roma, scatenato contro gli occupanti della scuola Diaz, non erano torture quelle inflitte dal personale della caserma di Genova-Bolzaneto, guardie carcerarie, medici e infermieri, ai ragazzi fermati durante i disordini, trasportati là, feriti e umiliati, mentre sulle radio della Polizia, nei messaggi dalla centrale venivano chiamati “zecche”?

E che reati erano quelli commessi sui 3500 dimostranti, feriti dalle cariche “alla messicana” delle forze dell’Ordine, con gli scudi percossi dai manganelli in uno spaventoso rito d’attacco, durante le manifestazioni in diversi punti della città, come testimoniano i referti degli ospedali genovesi e come dimostrerebbe un vero processo “per le violenze di strada”, mai neppure incominciato?

Quindici anni dopo molta parte di questa storia del 2001 andrebbe riscritta e approfondita, prima che le Corti Europee, le altre Corti internazionali, coprano di vergogna il nostro Paese e denuncino loro che in Italia in quei giorni maledetti del luglio 2001 c’era stata una sostanziale sospensione della democrazia.