Genova nuove dinastie e miliardi: Malacalza, Volpi, Fogliani

di Franco Manzitti
Pubblicato il 25 Agosto 2015 - 06:17| Aggiornato il 17 Aprile 2020 OLTRE 6 MESI FA
Genova nuove dinastie e miliardi: Malacalza, Volpi, Fogliani

Il porto di Genova

GENOVA – E’ come se fossero cambiati il vocabolario e la nomenclatura, quelli riservatissimi e mezzi segreti, ma non troppo, che circolavano nelle stanze più chiuse, negli scagni-uffici (così si dice in stretto zeneise), nei corridoi riservati delle banche residuali, nei quattro salotti rimasti aperti nella desertificazione imprenditoriale e sociale della fu capitale dell’Iri, la Superba decaduta, la regione-Stato dell’armamento navale, delle assicurazioni, di quello che oggi un po’ sciattamente si chiama shipping, della madre patria dell’industrializzazione italiana da Cavour in su o – se vogliamo essere più eleganti – da quando i Duchi di Galliera, marchesi De Ferrari, regalarono a Genova banchine portuali, ospedali, musei storici e il Welfare sotto forma di case di salute, ricoveri, orfanatrofi, scuole per ragazze pie e trovatelli…

Sono i suoni di questo vocabolario, le sillabe, le vocali appunto che cambiano e mutano perfino la eco quando si parla di palanche, di soldi, di moneta sonante, di capitali liquidi che scorrono nel ventre di banche, casseforti e danno alito ancora a questa città un po’ sprofondata nella sua mutazione epocale. Ma pur sempre una delle più “liquide” dove i risparni dei nonni, le rendite degli alberi genealogici ramificati nelle radici di grandi patrimoni secolari, tengono accumulata una fortuna. Malgrado tutto.

Proprio nel cuore della città, quasi in faccia alla strada che scende dalla grande cattedrale dei caruggi, San Lorenzo, c’è il cadavere spolpato della supernave della vergogna per la marineria italiana, macchiata dal capitano Gennaro Schettino suo comandante, la “Costa Concordia”, che giorno per giorno un esercito di formiche riparatrici navali, demolisce pezzo a pezzo, quasi il simbolo di una nuova era e di un vecchio business, l’era del gigantismo navale da crociera e da portacontainer e l’affare delle Riparazioni navali che si fanno a due passi da quegli scagni. Con uno sputo, lanciato dal cadavere disfatto della Concordia, puoi quasi arrivare, scavalcando la vecchia Dogana, in piazza Banchi, l’epicentro ombelicale di Genova.

Tutto in un fazzoletto di terra e di porto, di caruggi intricati e di banchine con fabbrica annessa: la storia della perizia navale e di quella di fare palanche, di scambiarle, scontarle, ammucchiarle, mettere – come dicono ancora i vecchi – “ a frutto”. Li si concentrava la storia, appunto, delle palanche, dei traffici di vapori (così si chiamavano, altro che shipping), lì si trattavano le mediazioni i brokeraggi dei carichi da far viaggiare per il mondo, lì Gilberto Govi, in piazza Banchi, quattro caruggi, una chiesa con scalinata, una Loggia di rara bellezza, tre gradini e il profumo del porto a pieni polmoni, lì Govi, la “maschera” genovese per eccellenza, della sua tigna e del suo immortale stile prudente, impersonava la gag irresistibile del ricco scambiato per povero mentre prende “i raggi di sole che sono gratis”, e gli mollano una moneta quasi fosse un mendicante…

E lì si trattava la spedizione della merce e solo poco più in là si assoldavano i camalli per caricare e scaricare le navi , nella mitica Sala Chiamata del porto, dove ancora sfolgorano i ritratti di Marx, Lenin e di Guido Rossa, l’operaio Italsider trucidato dalle Brigate Rosse, quando a Genova sibilava lo slogan “ né con lo Stato, né con le Br…

Lì può partire ora questo cambio del vocabolario e della nomenclatura, che scatta proprio dalla flotta Costa, che fu della vecchia e storica famiglia di Angelo, il capostipite, già presidente due volte della Confindustria nella fase italiana della ricostruzione e arriva ai “nuovi”, alla pattuglia di businessmen che spiccano in una città così diversa da quella delle flanelle grigie, dei colori attutiti, degli uffici con arredamento spartano, mogano lucidato, tavoloni essenziali, segretarie in cappa nera e di umile tratto e inesistente sex appeal, altro che il tacco dodici e le sventagliate di minigonne dell’era recente. Altro che gli open space di oggi, la digitalizzazione di ogni servizio, le misure di sicurezza,. i pass appesi al collo dei visitatori. “ Scia s’ accomode…..” – sussurravano le storiche segretarie in stretto zeneise, accogliendo i visitatori, i clienti di quegli uffici, che strippavano di palanche.

Così diversa questa Genova, che non puoi neppure chiamare “rampante”, ma semplicemente nuova, di altre gerarchie, di capitani d’impresa venuti da mondi totalmente diversi da quelli precedenti.

Vai a scoprire da dove spuntano i Malacalza, i Volpi, i Fogliani, i Giglio, gli Spinelli, che non puoi certo chiamare i “nuovi ricchi”, formula desueta ma semmai, visto che stai sulla tolda Superba pur sempre governata da un sindaco di nome Marco Doria, discendente dell’ammiraglio Andrea per linea trasversale di 32 rami nobiliari. Chiamali, piuttosto, “capitani di impresa”. E di che imprese!

Così, con una sottigliezza in più nella definizione del ruolo, si definisce, ad esempio, Vittorio Malacalza, il settantenne leader indiscusso della città oggi per fama e attenzione nei suoi riguardi, che quando parla delle sue attività molteplici e oggi di rilevante successo, aggiunge anche con un filo di pudore di “intrapresa”.

Lui “intraprende”, cerca terreni dove rischiare, appunto il lancio di una impresa, magari nuova, sia il business di entrare nella cassaforte di Pirelli e di uscirne con un guadagno misurabile in centinaia di milioni di euro, sia quello di entrare “ e salvare, nel vulcano in eruzione della banca – mamma di Genova e della Liguria, la Carige, conquistandone, sulle ceneri di scandali a ripetizione e della sua decapitazione verticistica, quasi il 20 per cento, diventandone il king maker.

Per non parlare di tutto il resto, messo in piedi, o meglio “intrapreso” da Malacalza, partito praticamente da zero, alla fine degli anni Cinquanta, o ancor meglio partito dall’ asfalto dei lavori stradali di famiglia, dopo la morte improvvisa del padre e arrivato al vertice passando, intrapresa per intrapresa, dalla fornitura di valvole, ai magneti superconduttori al Cern di Ginevra, dove i premi Nobel alla Carlo Rubia vanno ora alla ricerca della “particella di Dio”, alla manifattura con Ansaldo, all’acciao con Italsider, Duferco, Trimetal, Boastel Italia….. Principi chiave del gruppo: investimenti in tecnologia, stabilimenti vicino ai clienti, utili aziendali sempre reinvestiti nello sviluppo.

I Malacalza, Vittorio e i suoi due figli quarantenni, anch’essi tutto meno che rampanti, Mattia e Davide, non cedono mai aziende se non nel caso del 2008 quando non poterono rifiutare la vendita dell’acciaio di fronte a una offerta da 1,2 miliardi di euro, secondo la favola genovese che circondava quel business con i russi.. e che aumenta il livello del mare di liquidità di cui la famiglia è accreditata.

Ma il grande salto pubblico nella classifica dei genovesi del Terzo Millennio più in vista nella città della ex capitale delle palanche, i Malacalza lo hanno fatto con la operazione Carige, di cui anche Blitz ha parlato più volte e che li ha fatti apparire, potenti economicamente, strategici nei tempi delle mosse di acquisizione della quota di maggioranza di quella banca in crisi totale e salvatori della patria, una fama che il loro understatmente respinge disperendendola nelle loro frenetica attività multinazionale, tecnologica, che comprende tanti altri settori di “intrapresa” oltre quelli già citati.

La tecnologia, per esempio, è seguita dalla Asg Superconductors, dalla Columbus e dalla Paramed, diversificazioni che partono all’inizio del Duemila con l’acquisizione dell’ unità Magnete Ansaldo. Non sono solo tipici business a commmessa e per dimostrare questo i Malacalza hanno creato anche due start up, appunto la Columbus che produce un cavo superconnettivo per trasmettere energia e Paramed, che produce un sistema di risonanza magnetica aperto.

Mica finisce qua: Malacalza è tornato anche alle origini ed è attivo nel mattone con la Staurt Immobiliare.

Si capisce, osservando questo panorama di business che l’affare Carige è un’altra cosa: è il desiderio di creare le condizioni per arrivare a una pubblic company che aiuti la città, salvando la banca-mamma mezza fallita, crocifissa dalle inchieste di Bankitalia e della Procura di Genova con il vertice e il past presidente Giovanni Berneschi arrestato e accusato di reati davanti ai quali non c’è un genovese dell’establishment che non strabuzzi gli occhi: ma possibile che il Doge (così lo chiamavano) mentre governava banca e città ne combinasse di tutti i colori…..

Ma si capisce anche che un salvataggio del genere, maturato con gli accordi con la Fondazione Carige e il suo nuovo vertice, scesa dal 43 allo 0,5 per cento di quota della banca, ha creato quello status per cui oggi guardi alla famiglia come un tempo si guardava alle dinastie storiche dei genovesi di un’altra epoca, i Costa, gli altri armatori, che ce n’erano decine: i Ravano, i Corrado, i Lolli Ghetti, i De Franceschini, i Bibolini, i Grimaldi per citare i più noti e ora non c’è nessuno o come si guardava ai Garrone, che ancora ci sono e sono strasolidi e ultraconvertiti dal petrolio, alle energie rinnovabilie e recentemente al settore idroelettrico.