Genova. Renzi al pesto, primarie Pd nella città alla fine del mondo

di Franco Manzitti
Pubblicato il 12 Febbraio 2014 - 08:42 OLTRE 6 MESI FA
Genova. Renzi al pesto, primarie Pd nella città alla fine del mondo

Genova vista dalla acropoli di Castelletto, in passato simbolo di repressione, oggi ombelico del mondo

GENOVA – Che succede a Genova, tra una frana, una alluvione, una ferrovia bloccata, l’aeroporto declassato, le stazioni dei treni a Principe e Brignole stravolte da lavori eterni, il deficit sanitario abissale, i buchi neri in mezzo alla città che per entrare nell’Ospedale principale, quello di san Martino, ci vuole un elicottero per sorvolare un cantiere-voragine fermo da tre anni?

Che succede ora che a ottanta anni dalla costruzione della prima grande acciaieria italiana , quella della Ilva, poi diventata Italsider, poi tornata Ilva e dal 2005 con l’altoforno spento e demolito, i proprietari della famiglia Riva, trafitti da ordini di cattura, inchieste e processi, hanno annunciato di mettere sul mercato oltre 100 mila metri quadrati del loro stabilimento, un tempo considerato l’Eldorado di Genova, un quartiere intero costruito sul mare di Cornigliano?

Che succede a Genova e in Liguria, che il Secolo XIX con una inchiesta azzeccata e un titolo ancora di più, ha definito “la città alla fine del mondo”, perché è la più irraggiungibile, economicamente e fisicamente che ci sia dai normali mezzi di comunicazione, aereo, treno, autostrada, strada statale, vulgo Aurelia, se arrivi da Roma?

Il biglietto aereo Alitalia per andare e venire da Roma, aeroporti Cristoforo Colombo e Leonardo Da Vinci, costa 400 euro, roba che neppure i consiglieri regionali da 10 mila euro al mese riescono più a farsi rimborsare, oltre alle mutande e ai vini d’annata pagati con il finanziamento pubblico ai gruppi politici, che ha fatto indagare se non arrestare o inquisire 37 consiglieri sui 40 del Consiglio.

In treno la percorrenza da Parigi è di dieci ore, perché l’alta velocità francese si schianta a Ventimiglia, da dove partire per Genova è impossibile perché sulla linea verso Genova c’è la nostra Concordia, cioè il relitto di un treno, il famoso Intercity 677, deragliato il 17 gennaio scorso, il venerdì nero, che sigilla la ferrovia e sega in due la Liguria con immani conseguenze, mentre le frane continuano a mitragliare la strada Aurelia.

Che succede a Genova in mezzo a queste emergenze, che sembrano incrudelirsi in un inverno che non è tale, ma piuttosto un autunno ammazzonico con continue pioggie torrenziali e intermittenti, che in dicembre sono state due volte e mezzo quelle degli anni precednti e sfarinano il territorio genovese e ligure perfino nei suoi luoghi simbolo, come l’incantevole scogliera di Nervi, dove la frana è scivolata verso la ferrovia proprio a un tiro di scoppio dalla villa di Beppe Grillo, sulla altura di sant’Ilario?

Succede che tutto questa scatafascio, che non si esaurisce certo solo qua perchè tutta la città e la Regione si stanno inabissando in ogni attività e speranza del futuro, serve semplicemente da contorno a una furibonda battaglia politica per eleggere non il Doge, l’imperatore o magari il sindaco o il Governatore, ma semplicemente il segretario regionale del Pd: domenica 16 febbraio, come in tutta Italia, si torna per questo alle Primarie.

Lo scontro politico per questa nomina è diventato la questione cruciale, alimentata dalla vittoria nazionale di Matteo Renzi e dalle conseguenze che la affermazione del sindaco fiorentino ha innestato nel corpo fibrillante del Pd, nella città e nella regione che furono le più bersaniane d’ Italia un anno fa e che ora stanno diventando le più renziane, malgrado la resistenza di uno zoccolo duro cuperlian-d’alemiano.

Stanno succedendo cose da turchi in questa traduzione al pesto della battaglia per decidere chi comanda in Liguria, soprattutto perché la battaglia avviene alla vigilia dello scontro, previsto nel 2015, delle elezioni regionali, dove il governatore Claudio Burlando, da dieci anni in Regione e con una interminabile carriera politica alle spalle, segretario di sezione Pci, consigliere comunale Pci, segretario provinciale Pci, vice sindaco, sindaco di Genova per il Pds, deputato Pds, ministro dei Trasporti nel Governo Prodi-Ciampi-Flick, responsabile enti locali e dell’economia per il Pds a Roma, infine presidente della Regione Liguria per il Pd dal 2005, ha annunciato che non si candiderà più, ma non vuole che la sua successione introduca una discontinuità nel governo della Liguria.

Teme l’ apres moi le deluge, ma ha già indicato la sua delfina, l’assessore alla Infrastrutture, la molto pimpante Raffaella Paita, spezzina, moglie del presidente dell’Autorità portuale di Genova, Luigi Merlo, del quale la signora ha preso il posto in regione. Paita dovrà passare, ovviamente, attraverso le primarie, ma intanto il suo lancio, condito da uno scatto di visibilità esplosivo, diventa il tema che rende incandescente proprio la battaglia per la segreteria regionale.

La ragione è che questa elezione sfornerà un personaggio determinate per le scelte future di Genova e della Liguria, che sembrano accantonate al ribasso tra quelle frane, quei treni-Concordia, quei cantieri e quelle infrastrutture che rendono, come scrive Il Secolo XIX, la città alla fine del mondo, echeggiando la frase storica del Papa Francesco appena eletto. Lui era stato scelto alla fine del mondo, in Argentina, i liguri si sentono alla fine del mondo, se devono partire o arrivare in una regione in cui i trasporti regrediscono verso l’Ottocento della navigazione, unico trasporto da Ventimiglia a Spezia.

La battaglia ha avuto inizio quando Burlando, la Paita e l’establishment di potere consolidato e a prova di alluvione, frana e cataclisma che governa la Liguria, con il codazzo di consiglieri assessori e sindaci, tutti a prova di bomba e anche di scandalo dei rimborsi ( sono caduti su questo fronte due vice presidenti della giunta Burlando, Nicola Scialfa e Marilyn Fusco, ex IDV, dimessisi dal ruolo, ma rimasti consiglieri a stipendio e il presidente del Consiglio Regionale, Rosario Monteleone,Udc, e la giunta ha retto come una corazzata inaffondabile) ha virato sulla scia di Matteo Renzi.

Sono diventati tutti renziani da dalemiani, bersaniani che erano e hanno scelto per il ruolo di segretario regionale il giovane Alessaio Cafarra, sindaco di Sarzana, tipico volto nuovo del Pd di oggi, dove non capisci le differenze per qualificare un renziano o cuperliano, se non dal taglio più o meno rado della barba, ma non certo dalle distinzioni di programmi e idee.

Contro Cafarra è ovviamente sceso in campo il cuperliano Giovanni Lunardon, savonese, già insediato nei vertici del Pd ligure e genovese perché aveva fatto il salvagente delle precedenti gestioni, diventando una specie di trait d’union tra il vecchio e il nuovo di un partito nel quale la star Marta Vincenzi, ex sindaco, è stata falciata dalla vicenda della alluvione mortale del novembre 2011 e l’altra star, Roberta Pinotti, oggi senatore e presidente della Commissione Difesa, lei che era una superpacifista, regge malgrado le sberle prese alle primarie da sindaco. Ma si sa: in un Parlamento di nominati, il problema del consenso non è rilevante.

Ovviamente anche la Pinotti è renziana. A Roma mentre a Genova è cuperliana. Sic transit gloria mundi, infatti la trasmigrazione non è affatto automatica tra vecchi e nuovi renziani e con la battaglia del segretario si complica perché, per esempio, il sindaco di Savona, Federico Berruti, renziano della primissima ora, si è schierato in questa battaglia, come molti altri “figli” di Matteo, per Lunardon, il cuperliano e gli intrecci di questo tipo si susseguono in una rumba da far tremare i garretti anche ai ballerini e ai voltafaccia più esperti.

C’è ovviamente un terzo candidato, oltre a Cafarra e a Lunardon, il civatiano Stefano Gaggero, un altro, questa volta senza barba, né rasa, né folta, del quale capisci bene la sacra e integerrima disponibilità e lo spirito civile, ma non le differenze dagli altri.

L’impressione della campagna elettorale in questo clima è di una grande confusione, ma anche di un impegno sproporzionato alla partita: si combatte con grandi manifesti in tutta la città, dibattiti più o meno frequentati dai tre, match televisivi, confronti in centri culturali, cinema e circoli del Pd, con scenografie e location che potresti pensare di assistere allo scontro tra Kennedy e Nixon nella North Carolina, invece che magari al Centro Civico di Cornigliano.

Ha voglia il più saggio dei candidati, Lunardon, con il volto sempre perfettamente rasato e con un po’ più di esperienza alle spalle, a spiegare che dopo la scelta renziana del Pd nazionale, sono tutti renziani e che, quindi, le primarie sono solo una opzione tra diverse figure.

Impressiona il carico da Novanta che la vecchia guardia di Burlando ha messo sulla partita, come se veramente qui si giocasse non Renzi al pesto, ma il futuro politico di una regione dove il governo di una parte non vuole tramontare, anche perché assicura un immenso sistema di potere, diffuso burocraticamente, esteso istituzionalmente, senza quasi confini, vista l’inesistenza della controparte, cioè la Destra, Forza Italia e affini, che sono come volatizzati ed ora guardano solo a Imperia.

Claudio Scajola, assolto per la casa al Colosseo, sembra una specie di Lazzaro, che esce dal sepolcro.

Ma il problema è che Imperia è laggiù, oltre al treno-Concordia, quasi irraggiungibile. Di là arriveranno solo gli strepiti del Festival di Sanremo che sta per incominciare, oltre al binario unico. Magari in fondo c’è anche uno sceriffo con la pistola, che veglia sulla ferrovia con la sua Colt e non fa passare gli indesiderati, ora che il cavallo di acciaio è fermo sui binari e neppure gli indiani lo assaltano. Ma chi è lo sceriffo e chi sono gli indiani in questa Pesto Connection?