Terrorismo a Genova. Enrico Fenzi e il rapimento Sossi: sangue e memoria

di Franco Manzitti
Pubblicato il 10 Dicembre 2013 - 11:48 OLTRE 6 MESI FA
Terrorismo a Genova. Enrico Fenzi e il rapimento Sossi: sangue e memoria

Enrico Fenzi. Anni di piombo e galera

GENOVA – Enrico Fenzi, prima d’ora non aveva mai parlato in pubblico a Genova della sua storia brigatista, della sua militanza nel partito armato negli “anni di piombo”, dei suoi processi, della sua condanna, della sua dissociazione, di quel che erano gli uomini della “stella a cinque punte”, che avevamo tenuto in scacco lo Stato, rapito e ucciso Aldo Moro, il presidente della Dc.

Enrico Fenzi era stato inghiottito prima dal carcere duro, dai processi a suo carico, dalla condanna definitiva a 18 anni, poi dal suo pentimento che non c’era mai stato, poi dal silenzio e dalla mimetizzazione nei caruggi di Genova, da dove era partita la sua “banda armata” e dove era tornato “dopo”, come antiquario, poi come ristoratore, sempre come professore, ex docente alla Facoltà di Lettere, esperto di Dante e Francesco Petrarca, ex maestro, anzi bollato per sempre come “cattivo maestro” di una generazione sessantottina e poi “rivoluzionaria”.

E di colpo, in fondo a uno dei saloni storici del Palazzo Ducale genovese , in fondo al pubblico, alla fine della presentazione di un libro sulla colonna genovese delle Br, è spuntato in piedi Enrico Fenzi, il “professore”, oggi quasi settantacinquenne e ha chiesto di parlare, il maglione scuro, il volto pallido, la voce un po’ emozionata per commentare quella storia appena raccontata sulle Br di cui aveva fatto parte.

“E’ la prima volta che parlo in pubblico di questo “ – ha annunciato davanti a duecento persone, all’autore del libro, Andrea Casazza, giornalista del “Secolo XIX” e agli altri relatori di quella presentazione, Gad Lerner, Giuliano Galletta, critico letterario, anche lui giornalista de “Il Secolo XIX “ e Cesare Manzitti, avvocato, difensore di imputati coinvolti in quei lontani processi anni Settanta-Ottanta, quando Genova era in cima alle cronache del terrorismo.

Il libro è intitolato “Gli imprendibili” e lo ha stampato la casa editrice “Derive e Approdi”, un tomo di 500 pagine, che per la prima volta cerca di ricostruire la storia di quella colonna Br che rapì Mario Sossi e uccise il procuratore della Repubblica Francesco Coco e la sua scorta e giustiziò altri servitori dello Stato di polizia e carabinieri e l’operaio e sindacalista dell’Italsider Guido Rossa, che aveva denunciato un “postino” dei terroristi, sequestrò e gambizzò e tenne in scacco Genova per quasi un decennio nel segreto più impenetrabile, svelato solo quando i primi pentiti squarciarono il velo del terrore.

Enrico Fenzi era uno di questi “imprendibili”, anche se a Genova era stato già arcinoto, un “maestro” della “rivoluzionaria” Facoltà di Lettere, uno di quelli che esaminava gli studenti a gruppi e fiancheggiava politicamente le ali più estreme dei partiti, allora chiamati extraparlamentari. E anche se era incappato in un blitz rimasto famoso, perché catturò nel 1979 una quindicina di presunti brigatisti rossi, caduti nelle maglie dei carabinieri del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, poi tutti assolti in primo grado nel famoso processo che lo stesso generale avrebbe bollato come l’”ingiustizia che assolve”, aveva fatto carriera nel partito armato, fino alla sua cattura a Milano, insieme con uno dei killer di Aldo Moro, il terribile Mario Moretti.

Si alza e parla quasi quaranta anni dopo tutto questo, dopo il sangue, la morte, il terrore, gli equivoci di Genova, della sinistra, degli album di famiglia del Pci, le catture e i processi, Enrico Fenzi “perchè deve levarsi qualche sassolino dalle scarpe” e vuole dire la sua verità, davanti a quel pubblico “informato sui fatti”, ma lontano anni luce da quel tempo, perchè oggi siamo in un altro tempo, truce come quello, ma macchiato di altri colori.

“Non è vero che mi è stato perdonato tutto “- incomincia Fenzi con il suo tono da ex professore che alza la voce per la prima volta – sono stato condannato a 18 anni e ne ho scontati diciassette, di cui sette più tre in galera e gli altri con altre misure. Ho pagato abbondantemente, ma non sono mai stato reintegrato nel mio lavoro e non mi sono mai stati restituiti i diritti civili”.

Fenzi ha un tono duro, ma quasi non rivendicativo, come di chi vuole uscire da una cappa di buio che lo ha coperto per questi quaranta anni in cui il mondo è cambiato, ma lui è rimasto sotto la cappa di una specie di condanna permanente, dopo essere uscito dalle Br, come se ne può uscire senza essersi pentito, ma da dissociato critico, capovolto rispetto a come era entrato nella clandestinità, nella lotta armata, a fianco dei killer, di quelli che sparavano, uccidevano e gambizzavano per fare la rivoluzione.

Troppo tempo è passato e Fenzi in quel salone dove il ricordo difficile da ricostruire della colonna genovese delle Br, quella sgominata nel 1980, in quell’appartamento di via Fracchia, sulle alture di Oregina, dove sempre gli uomini del generale dalla Chiesa, con le chiavi della casa consegnate dal pentito numero uno, Patrizio Peci, entrarono sparando con i fucili a pompa attraverso i muri e “seccando” Riccardo Dura, il capo colonna di 29 anni e Anna Maria Ludmann, l’ineccepibile professorina di 32, e Lorenzo Betassa di 25 anni e Roberto Panciroli di 28, “gli imprendibili”, di cui mai si era conosciuto il nome e il volto, malgrado sparassero e uccidessero da anni, appunto Enrico Fenzi in quel salone sembra una icona del passato, crocefisso alla sua colpa, ma anche a una memoria che non si può cancellare, seppure collocata in un altro mondo. Passato e sepolto.

Ci ha provato l’autore del libro a spiegare il suo grande sforzo di ricostruire quegli anni e quei protagonisti, quella storia attraverso gli atti processuali e le testimonianze e gli intrighi delle inchieste spericolate e delle sentenze conclusive. E gli hanno detto che il suo non è un libro di storia, ma il documento preciso, perfino minuzioso, di una vicenda raccontata da un cronista che tenta una cronaca trenta anni dopo i fatti.

Fenzi non ci sta del tutto a quella ricostruzione, a quei commenti, che approva, ma che vuole in parte rettificare, perchè la storia va messa a posto e lui sta zitto da quasi tutta la vita. Era un quarantenne allora, nel 1979, quando i carabinieri gli puntarono i fari addosso e uno dei primi rapporti di polizia lo descrive così come Andrea Casazza riporta nel suo libro:

“Fenzi Enrico, 40 anni, è alto un metro e settanta, è di media corporatura, è praticamente calvo nella parte anteriore del cranio, ha i capelli grigi, lunghi, un po’ arricciati, sul collo e arruffati sopra le orecchie e non ha inflessioni dialettali, parla in perfetto italiano con scioltezza e proprietà, veste in maniera sportiva (jeans e pantaloni di velluto, mocassini tubolari, magliette tipo Lacoste) è professore di italiano all’Università di Genova, è nativo di Bardolino( Verona), è separato dalla moglie Chelli Maria Grazia, è stato più volte perquisito.”

Non ci sta del tutto Fenzi, perchè la storia delle Br di cui tutti hanno scritto e tutti hanno parlato e straraccontato “ non si può fare solo attraverso la cronaca giudiziaria, la storia di quello che sono state le Br nessuno l’ha mai scritta.”

Ecco nella sala un po’ attonita del palazzo Ducale, nel giorno in cui i “forconi” bloccano la città, con una rivoluzione così diversa da quella di quaranta anni prima imposta dalle Br, un nucleo armato fatto di poche decine di persone (così si racconta negli “Imprendibili), ecco che il prof torna in cattedra, con tono sommesso, sofferente:

“Un sassolino dalle scarpe proprio vorrei levarmelo, perché sono diventato io, Fenzi, l’ombrello sotto il quale si sono protetti tutti, tra catture e processi. Va bene, mi sono dissociato, ma non ho aggiunto nulla a quello che gli altri raccontavano sulle Br, cento, duecento volte. Ero il più vecchio, ero un professore e mi hanno usato così…. ma la storia non è solo quella che è stata ricostruita a questo modo….”

E allora quale sarà questa storia da risistemare? Fenzi elenca anche un po’ polemico e quasi sfuggente quello che la cronaca giudiziaria non può sistemare, non può storicizzare:

“ Mi hanno minacciato in cella che non avrei visto il giorno dopo se non ignoravo quel particolare a cui loro tenevano……hanno nascosto una pistola in casa mia per accusarmi nel processo del blitz…….ci sono verità che sono rimaste sepolte, mentre veniva distrutta la colonna veneta delle Br e si liberava il generale americano Dozier e i brigatisti catturati venivano torturati con un sistema anche legalizzato e tutti si pentivano e parlavano e la colonna genovese veniva scoperchiata dalle rivelazioni di Bozzo e Cristiani…..che avevo di più da dire io, da aggiungere…..”

Sono veramente pezzi di storia questi sassolini che Fenzi si leva dalle sue scarpe di oggi, di uno che oramai da decenni è “fuori” e ha tentato invano una risalita?

“Avete raccontato di quello yactht che era partito da Tripoli del Libano e aveva portato sull’Adriatico quattro tonnellate di armi non solo per la colonna genovese, ma per tutte le colonne italiane: quella barca era dello Olp di Arafat.”

Fenzi mescola la storia con la “sua” storia.

“Ho testimoniato, ho aiutato Giuliano Naria [il brigatista accusato erroneamente di avere ucciso Francesco Coco, il Pg di Genova l’8 giugno del 1976], ho aiutato Sergio Adamoli,[il figlio del famoso sindaco comunista della Genova anni Cinquanta]. Che avevo da aggiungere? Per come mi sono comportato ho dovuto scontare più anni di carcere di quelli che mi spettavano.”

La penultima parola del prof delle Br è per Francesco Berardi, il “postino” che faceva propaganda dentro all’Italsider, distribuendo volantini Br e che, una volta “beccato”, aveva fatto il suo nome agli inquirenti e che finì suicida, impiccato in cella nel supercarcere di Cuneo. Fenzi ci tiene forse a dimostrare in pubblico che non ha mai avuto nulla contro quella figura piccola e tragica del postino, anche se fu Berardi a tirargli dietro i segugi di Dalla Chiesa, dopo l’omicidio di Guido Rossa, giustiziato per avere deposto in udienza contro lo sciagurato postino. “Lui si è veramente giocato la vita e non possso dimenticarlo.”.

L’ultima parola di Fenzi è, invece, una citazione letteraria e come non poteva essre diversamente per un professore dalla carriera troncata che ogni volta che tenta di riemergere, magari in un convegno sul Petrarca, di cui continua ad essere uno studioso fine e raffinato, viene subito censurato da chi non dimentica? La citazione è per “Pentescoste”, la poesia di Alessandro Manzoni, che invoca la luce che cada sui “vari color”.

Per quest’uomo, oramai anziano, spezzato ma resistente al tempo, al logorio dei processi, delle accuse, al peso di una storia cancellata dalla memoria, ma ancora in grado di fare male, ogni volta che riemerge con la sua caterva di lutti e di sofferenze, quella sulla luce è una invocazione che il pubblico, arrivato a seguire la presentazione del libro, accoglie con una specie di timido applauso.

In quella sala ci sono molti reduci di un tempo macerato dai ricordi, con i famigliari delle vittime, silenziosi, con i compagni di strada nelle frange di Autonomia Operaia, di Lotta Continua, dei gruppi border line, tra l’estremismo verbale dei partiti extra e il partito veramente armato, con i cronisti dell’epoca, con un pubblico genovese, quasi sperduto in quella memoria. E così, dopo lo sfogo del professore, chi arriva a spingere le spine nelle ferite di questa lunga memoria mezza perduta, mezza irrisolta?

Arriva il figlio di un alto magistrato dell’epoca, Beniamino De Vita, che fu indirettamente vittima di quel terrorismo, quando, da presidente della Corte d’Assise d’Appello, durante il sequestro del magistrato Mario Sossi, emise un provvedimento che consentiva di liberare i cosidetti “nonni delle stesse Br,” gli esponenti della banda XII Ottobre, condizione richiesta per non giustiziare lo stesso Sossi.

“Sono il figlio di un magistrato che è stato lasciato solo dallo Stato davanti al ricatto dei terroristi” – racconta, questo figlio, che esce da un’ombra molto più assoluta di quella da cui è risbucato Fenzi. Anche questa è una testimonianza che arriva non solo fuori tempo massimo, ma come da un altro mondo, oggi quasi extraterrestre, perchè rievoca uno scontro, quello tra il terrorismo e i giudici che è seminato di croci in un cimitero dimenticato. Altro che i match berlusconiani con i giudici!

Fuori dal Palazzo Ducale, dove queste memorie muovono antichi brividi, ci sono i rimbombi della nuova rivoluzione, quella dei Forconi. che hanno bloccato la città, paralizzato il suo traffico, fatto tremare i palazzi con le bombe carte.