Disordini a Teheran e in Iran: uno scontro di potere tutto interno a un regime sanguinario, chiunque vinca

di Gennaro Malgieri
Pubblicato il 21 Giugno 2009 - 12:52| Aggiornato il 30 Settembre 2010 OLTRE 6 MESI FA

I morti non si contano più. Era scritto che la protesta post-elettorale sfociasse in tragedia. L’Iran ha cominciato a bruciare non appena si sono delineati i contorni della truffa nelle urne.

Adesso la rivolta dilaga, nelle grandi città e nelle campagne. Ed assume i contorni di una guerra totale non soltanto tra le due fazioni, quella capeggiata da Mir Hossein Mussavi e quella ispirata da Mahmoud Ahmadinejad, ma anche tra chi pretende aiuti di Stato per fronteggiare la miseria (animata dalla immensa moltitudine di mendicanti che vivono dei sussidi del regime e dai bazarì, i potenti commercianti capaci di spostare masse ingenti di voti).

La protesta politica diventa così sociale. Riformatori e conservatori (i termini in Occidente hanno un ben altro significato) si fronteggiano come possono e con quel ciò di cui dispongono. Non mancano le armi, naturalmente. E la brutalità dei miliziani khomeinismi si spinge fino a massacrare una povera donna che non c’entrava niente con i moti i piazza, come è accaduto sotto gli occhi allibiti del mondo che ha seguito il brutale crimine attraverso Internet, il solo strumento di documentazione di cui si dispone (e non sempre) per via della censura calata sugli eventi iraniani.

Nel bel mezzo di questo caos generalizzato ancora non c’è una lettura univoca alla profanazione del mausoleo dell’ayatollah Khomeini, attaccato non si sa bene da chi, dove hanno trovato la morte due persone: kamikaze sciiti?

Certamente gli scontri non si arresteranno nei prossimi giorni. Se neppure l’appello della Guida Suprema Alì Khamenei, lanciato in occasione della preghiera del venerdì nell’Università di Teheran, è riuscita a placare gli animi (ma probabilmente non aveva questo scopo), vuol dire che il livello di guardia è stato abbondantemente superato. Ormai i margini di mediazione sono saltati.

Quando Moussavi afferma di essere pronto al martirio, è difficile immaginare che possa tornare indietro. È bene sia chiaro a tutti che il candidato alle presidenziali sconfitto comunque non è una mammola. Come primo ministro di Khomeini dal 1981 al 1989 si è distinto per il suo furore rivoluzionario culminato in numerosissimi episodi di repressione: sulla sua coscienza pesano morti e torturati.

Si dice che oggi sia cambiato, ma nel suo programma non si fa cenno a riforme di tipo strutturale nel campo della difesa dei diritti umani e della diffusione della democrazia. C’è piuttosto l’indicazione di un’accelerazione verso un’espansione dell’economia di mercato che dovrebbe sottrarre risorse alle classi parassitarie che vivono all’ombra del regime e del clero. Insomma, la redistribuzione del reddito sembra essere il nocciolo della contesa in Iran.

E che Moussavi sia ispirato da uno degli uomini più ricchi ma anche, a suo modo, “illuminati” del Paese, Alì Akbar Hashemi Rafsanjani, è un fatto di non poca importanza. L’altra sponda gliela offre, sul piano ideologico e morale, il “mite” Mohammed Khatami, anche lui, come il primo, ex-presidente della Repubblica islamica. Il potere che questi uomini di primo piano del khomeismo incarnano è abbastanza forte per lanciare la sfida finale a Khamenei, circondato dal Consiglio dei Guardiani della Rivoluzione, dai pasdaran, dai basiji, dal clero più intransigente, dall’esercito, dalla magistratura? Sì, è vero: possono contare sul popolo.

Ma anche Ahmadinejad, braccio armato della Guida Suprema, ha dalla sua una l’appoggio di una considerevole parte degli iraniani che sono quelli più “ideologizzati” e fanatizzati, dunque maggiormente disposti ad andare fino in fondo.

La “guerra” di Teheran, insomma, è una guerra per impossessarsi delle leve del comando. Non sono in discussione la costruzione dell’arsenale atomico; il rapporto privilegiato con Pyongyang; l’ostilità verso Israele, fino a pianificarne la distruzione; il progetto di conquistare l’egemonia dell’Asia centrale giocando un ruolo decisivo nella “normalizzazione” dell’Afghanistan. La libertà, i diritti reclamati dai giovani e dalla borghesia, lo sviluppo delle relazioni con l’Occidente c’entrano fino ad un certo punto. Moussavi, forse tatticamente, si mostra più sensibile dell’ottuso Ahmadinejad a tutto questo ed intende farlo pesare nel confronto globale, ma sarebbe meglio andare a vedere le sue carte prima di accreditarlo come “uomo nuovo” e statista affidabile.

Gli Stati Uniti commetterebbero un errore madornale, in questa fase, se firmassero cambiali in bianco a chiunque ambisca ad impossessarsi del potere a Teheran. Meglio un po’ di prudenza per non incappare nello stesso errore di Obama quando ha teso la mano agli ayatollah e per poco non se l’è bruciata.

Se il “bersaglio”, comunque, più che Ahmadinejad è Khamenei, ci aspettiamo che i nemici della Guida Suprema indichino anche il possibile successore. E ce n’è uno solo che può aspirare a tale prestigiosissimo ruolo, quello stesso che aveva indicato Khomeini e che fu poi defenestrato, con un vero e proprio golpe nell’ambito religioso: il Grande Ayatollah Montazeri il quale, dal suo esilio di Qom, ha fatto sentire la sua voce giorni fa prendendo posizione per Moussavi e criticando la gestione disinvolta (e pericolosa) del voto.

Ecco allora intrecciarsi nel “grande gioco” iraniano un’altra variabile che contribuisce a rendere ancor più incandescente la partita. Ci auguriamo non fino ad un massacro la cui vittima sarebbe il popolo. Il pessimismo è autorizzato. Da quelle parti le rivoluzioni finiscono sempre in orrendi lavacri di sangue dai quali nessuno è in grado di dire come e quando si potrà uscirne.