Giancarlo Tartaglia, nuovo libro su Francesco Perri, repubblicano, giornalista

di Roberto Balzani
Pubblicato il 21 Ottobre 2014 - 14:05 OLTRE 6 MESI FA
Giancarlo Tartaglia, nuovo libro su Francesco Perri, repubblicano, giornalista

Francesco Perri. A lui Giancarlo Tartaglia ha dedicato un libro

ROMA – A Francesco Perri, personaggio di spicco del Partitot Repubblicano, di rilievo quanto dimenticato nella politica italiana del ‘900, Giancarlo Tartaglia, studioso di giornalismo per mestiere (è direttore della Fnsi, Federazione nazionale della Stampa) e per passione, ha dedicato un libro. Il libro di Giancarlo Tartaglia è frutto di una lunga ricerca fra le carte dell’Archivio di Stato e segue uno sulla Voce Repubblicana, per anni organo del partito e fucina di talenti, di cui lo stesso Francesco Perri fu direttore alla Liberazione. Il sottotitolo, “Dall’antifascismo alla Repubblica”, definisce l’arco dell’impegno politico di Francesco Perri, nato a Careri (Reggio Calabria) nel 1985 e morto a Pavia nel 1974 dopo una vita fra Milano, Genova e Pavia.

Roberto Balzani ha scritto l’introduzione.

La ricerca di Giancarlo Tartaglia ricostruisce la figura, per troppo tempo nota solo ai frequentatori della pubblicistica repubblicana del XX secolo, di Francesco Perri, osservatore e protagonista di una delle stagioni più inquiete e convulse della storia nazionale, da Giolitti alla Ricostruzione.

Un protagonista certo non di primo piano, per quanto ben inserito nei circuiti intellettuali e partitici del Paese: in un certo senso, un classico prodotto del connubio politico-culturale che caratterizzò tante figure di figli della piccola e media borghesia patriottica, fra Ottocento e Novecento. Nato in Calabria, a Careri, nel 1885, ma presto migrato in Piemonte per completare la formazione, avrebbe studiato nel prestigioso Ateneo di Torino, dove si sarebbe laureato con Luigi Einaudi.

Questa solida formazione giuridico-economica, che gli avrebbe consentito di entrare prima nell’amministrazione postale, poi di dedicarsi per alcuni periodi anche alla professione forense, ne avrebbe orientato in permanenza l’approccio ai problemi sociali. Perri, come tanti repubblicani e radicali della sua generazione, univa all’impianto liberista un autentico culto per l’autonomia locale, contrapposta allo statalismo dei socialisti. Il repubblicanesimo era il prodotto logico di un’esigenza razionale: la selezione dell’élite di governo per via meritocratica e non per diritto di successione. Proprio la monarchia era il perno intorno a cui ruotava l’intero mondo conservatore, supportato da affari e clientele che non avevano nulla in comune con l’universo della produzione e della modernità.

Il repubblicanesimo, agli occhi di Perri, era pure l’unica terapia possibile per il Mezzogiorno, dove una proprietà fondiaria spesso attratta dallo sfruttamento dei beni demaniali trovava nel sostegno elettorale al potere romano lo strumento per affermarsi come classe egemone, indipendentemente da qualsiasi tenue progetto riformatore. La scelta di Perri, una volta certificata l’impossibilità, per un uomo dalla sensibilità politica progressiva, di risiedere in una terra fra le più povere ed arretra- te della nazione, fu quella di trovare un ubi consistam al nord. Non che nel Piemonte sabaudo fosse più semplice essere repubblicano: ma Perri, uomo di minoranza estrema, non aveva di questi problemi. Solo una volta, nel 1914, in occasione delle prime elezioni amministrative a suffragio universale, aveva accettato il mandato nella sua Careri: ma si era trattato di una brevissima e triste parentesi, che lo aveva rafforzato nell’idea di puntare ad un più radicale mutamento degli equilibri politici del Paese. Lo sforzo da compiere, per chi partiva dal basso, dalla provincia profonda, era enorme e non sostenibile. Meglio provare dall’alto.

Il conflitto mondiale – come accadde per tanti uomini dell’interventismo democratico – sembrava dischiudere questa opportunità: saldare i conti con gl’Imperi Centrali e, si diceva allora, combattere l'”ultima guerra”, quella dalla quale sarebbe sorta un’umanità rigenerata. A chi prove- niva da un contesto segnato dall’impossibilità della riforma, la via bellica dovette apparire una specie di scorciatoia rivoluzionaria. I giovani della generazione di Perri ne furono affascinati, e, scontrandosi in seno al vecchio Pri con i fautori del municipalismo giolittiano fra il 1901 e il 1914, protagonista della discreta modernizzazione dell’Italia centro-settentrionale, spinsero il movimento verso un rinnovato garibaldinismo.

Terminato il grande massacro, riemersero le divisioni, anche in seno al fronte del cosiddetto “interventismo democratico”. In alcune aree del Paese – la Romagna in primis – la contrapposizione fra chi si era battuto in nome della patria e chi aveva subito la coscrizione spin- se i giovani repubblicani su posizioni nettamente ostili alla sinistra di classe; altrove, invece, gli ex combattenti tentarono, nelle elezioni politiche del 1919, di dar vita ad uno schieramento indipendente in grado di sviluppare, grazie alla massa dei reduci, un’energica politica di riforme, in senso sociale e liberal-democratico. Anche Perri coltivò, insieme a tanti altri, questa illusione: poi, però, rifluì sul suo repubblicanesimo positivo, profondamente ostile alla gestualità declamatoria di stampo dannunziano, alla verbosità dei comizi massimalisti, ma anche alla retorica patriottarda di tanti reduci trasformatisi in improvvisati leader populisti. L’impronta einaudiana era visibile, in lui, splendida penna della “Voce Repubblicana”, nell’analisi puntuale del contesto internazionale, nella denuncia delle insufficienze della classe dirigente, nel personalismo esasperato che condannava l’Italia dei notabili a subire l’offensiva fascista.

Allergico al fiumanesimo e a tutti i suoi succedanei, non stupisce, nel 1921-22, vederlo più vicino a Schiavetti che non a Gaudenzi, uomo della moderazione e della “macchina” del movimento, e perciò disponibile ad una mediazione sul giudizio da riservare all’azione delle camicie nere; anche se, poi, Perri da Schiavetti si sarebbe congedato, nel momento in cui, dopo il delitto Matteotti e la prima fase aventiniana, la posizione di una parte della direzione romana del Pri avrebbe marcato il suo filo-socialismo in una prospettiva massimalistica che, per il liberista e per l’autonomista reggino – il quale tuttavia non riteneva applicabile in modo meccanico il regionalismo di Zuccarini al Mezzogiorno, per difetto di “movimenti politici” in senso moderno nel sud – era inaccettabile. Oscillazioni e dibattiti tipici dell’epoca: se togliamo la centralità della “questione Costituente” (“la sola ancora di salvezza in mezzo allo sfascio universale”: parole di Perri), autentica bandiera comune a tutto il mondo di derivazione repubblicana fra l’età wilsoniana e l’instaurazione del regime, una volta tramontata la prospettiva del “rinnovamento” attraverso i combattenti, il confronto interno fra i fautori di un “blocco” di sinistra, gli autonomisti ad ogni costo (Giovanni Conti), i giovani ammiccanti al tendenzialismo fascista – risolto solo con la delusione del ’22 -, infine i parlamentari di lungo corso impegnati nelle manovre del notabilato liberale fu davvero intenso e caotico.

Perri, a dire il vero, fu un osservatore attento, a tratti ostentatamente analitico, di questa fase convulsa, e tenne fermi alcuni punti di riferimento: il fallimento del ceto politico di derivazione giolittiana (per lui – uomo del sud – già morto in fondo prima della Grande Guerra), la soluzione Costituente – ossia la ristrutturazione costituzionale dello Stato in senso antimonarchico – e l’antifascismo.

Un antifascismo “naturale”, frutto, da un lato, del suo percorso di studi e, dall’altro, di un’inclinazione positivista e antiretorica tipica del suo carattere: non a caso, Mussolini medesimo l’aveva definito, in una feroce polemica del 1921, un “fascistofobo repubblicano”. La distanza progressiva rispetto alla linea aventiniana, difesa viceversa da Schiavetti in nome della solidarietà fra i partiti democratici, trovava giustificazione nel ritorno di fiamma del gioco liberale, della difesa strenua delle “libertà costituzionali” perimetrate dallo Statuto albertino.

Per Perri, si trattava di una modalità ormai esausta: la protesta aventi- niana avrebbe dovuto sfociare in una radicale riforma delle basi dello stato, oppure si sarebbe esaurita – come in effetti si esaurì – in un’affermazione d’integrità mora- le, nobile ma senza pratiche conseguenze. Egli seguì le ultime convulsioni delle libertà in Italia con partecipazione, per poi immergersi nello spazio, il più possibile lontano dalla politica, della pubblicistica e dell’impiego, finché ci riuscì. Una classica posizione da “esiliato in patria”, che non gli evitò noie, ostacoli e persecuzioni, pur senza raggiungere le vette del processo e del confino. Perri restò antifascista, per quanto appartato.

Nel 1943-1944 tornò alla vita politica attiva, sotto l’occupazione nazi-fascista; ma fu nel 1945, all’indomani della Liberazione, che il partito lo volle alla guida del “Tribuno del Popolo”, foglio repubblicano genovese. Fu da quelle colonne che si batté per la Costituente e per la Repubblica, con la forza e la vivacità che avevano con- traddistinto la sua esperienza ai tempi della prima “Voce Repubblicana”. Quanto al programma e all’idee di quei mesi, Perri, che pure proveniva dall’élite contiana, intransigente e autonomista già ai tempi dell’Aventino, si sentì attratto dalla linea ciellenistica di Pacciardi, forse anche in virtù dell’influsso dell’ambiente ligure, dove la lotta partigiana e lo sforzo militare avevano prodotto una nuova, giovane classe dirigente. Per questo motivo, conclusa la fase fondativa della Repubblica, prese progressivamente le distanze dal vecchio compagno d’armi marchigiano, che profondeva le sue migliori, estreme energie nel profilo del testo costituzionale, inseguendo il disegno di un “partito costituente” trasversale rispetto alle forze 8 Prefazione presenti in aula. Perri sosteneva che il “problema sociale” doveva animare le strutture del nuovo potere e perciò non poteva accettare la “Repubblica purchessia fatta magari con i conservatori”, che Conti aveva in mente per radicare le istituzioni repubblicane nel corpo di un popolo moderato, tutt’altro che avvezzo alla democrazia.

Quando Pacciardi, dopo la svolta di De Gasperi, effettuò una conversione in senso centrista, di fatto passando dall’ala sinistra all’ala destra del Pri (era il 1947), per Perri, che pur comprendendo la realpolitik, poteva in fondo permettersi di prescinderne, si aprì la via della fuoriuscita dal partito: un altro percorso tipicamente repubblicano, che avrebbe contraddistinto le vite parallele di Zuccarini, Conti e dello stesso Pacciardi, seppure secondo itinerari assai diversi fra loro. Approdò al socialismo, che costituì per lui un specie di salvagente provvisorio, prima che i tempi riportassero il Pri nella linea da lui auspicata: quella del centro-sinistra raziocinante e tecnocratico di Ugo La Malfa, nella seconda metà degli anni Cinquanta. Fu, quella, la riconciliazione con i temi e i problemi di una vita: il pragmatismo e l’approccio economico, appresi alla scuola di Einaudi; una relazione non subalterna con un Psi finalmente non più massimalista; l’approccio moderno alla questione meridionale, durante la fase forse più esaltante del processo d’integrazione sociale e territoriale tentato dalla Repubblica.

E, infine, la possibilità di riprendere in mano la penna per “La Voce Repubblicana”: il giornale a cui aveva consacrato, nel terribile primo dopoguerra, la sua verve di analista e di polemista, firmando articoli di una lucidità e di una chiaroveggenza che ancora impressionano, a distanza di quasi cento anni. Davvero un personaggio straordinario, che Giancarlo Tartaglia, grazie ad un’accurata ricerca e a una felice narrazione, ci restituisce nella sua piena integrità. Un bel contributo alla storiografia sul repubblicanesimo, che sarebbe piaciuto a Giovanni Spadolini.