Cina, Tibet, Xinjiang: l’incubo di Pechino quando viene a mancare la tanto ricercata armonia

di Licinio Germini
Pubblicato il 11 Luglio 2009 - 10:31| Aggiornato il 13 Ottobre 2010 OLTRE 6 MESI FA

Le rivolte contro l’autorità di Pechino  in Tibet e nello Xinjiang insidiano l’idea del governo centrale secondo cui le popolazioni saranno sempre felici di scambiare la libertà con la prosperità’.

Contrariamente al Tibet, il cui Dalai Lama è una figura popolare e rispettata in tutto il mondo, gli uiuguri non hanno mai attratto l’attenzione del mondo. Pochi, al difuori del mondo islamico hanno mai sentito parlare di Yusuf Alptekin, il capo esiliato della Repubblica Islamica del Turkestan, morto nel 1995 all’età di 94 anni, o di Rebiya Kadeer,  leader emergente del movimento degli uiguri.

E i governo cinese è sempre riuscito a persuadere il mondo esterno che i disordini nello Xinjiang sono ispirati dal terrorismo jihadista e dai talebani in Pakistan, ricordando che circa due dozzine di uiguri sono stati incarcerati per qualche tempo a Guantanamo.

Ma gli insorti uiguri non sono certamente terroristi, come scrive l’Economist, e l’idea che la rivolta sia stata pianificata è fantasiosa. I disordini di Urumqui e le sue cause sottostanti dovrebero preoccupare le autorià di Pechino. Come accade in Tibet, molti uiguri temono che la loro terra venga invasa da legioni di cinesi di etnia han, che è qualla prevalente e dominante in Cina, tramite l’immigrazione forzata. Sono stanchi di essere disprezzati e trattati come cittadini di seconda classe e, come i tibetani, si sentono colonizzati.

Vedono le loro risorse energetiche – gas e petrolio – sfruttate e trasferite verso le ricche regioni costiere. Al contempo, molti cinesi considerano ingrati gli uiguri, per alcune politiche preferenziali verso di loro, come la possibilità di mettere al mondo più bambini.

La risposta cinese ai moti di Urumqui è’ stata quella che ci si poteva attendere. Invio di truppe e arresti di centinaia di persone, che probabilmente saranno detenute per mesi e alcune delle quali verranno messe a morte. In patria e all’estero Pechino darà la colpa ad una minoranza ”malvagia” e non  compirà nessuno sforzo per riconoscere, o ancor meno, andare incontro al risentimento che ha scatenato i disordini.

Sarà sufficiente? I tibetani e gli uiguri non sono i soli che in Cina non accettano di scambiare la libertà con la prosperità. Ci sono numeri incalcolabili di aderenti al movimento Falun Gog, decine di milioni di cristiani cui è impedito di praticare la loro fede, il cui numero è probabilmente superiore ai 75 milioni di iscritti al partito comnista, contadini che sono stati vittime di ruberie da parte di funzionari locali, e molti giovani che, contrariamente ai loro genitori, danno per scontata la prosperità economica e sono frustrati dalle limitazini alla loro libertà.

Ricorrendo alla repressione, Pechino può facilmente arginare il fermento in Tibet e nello Xinjiang, conclude l’Economist. L’integrità della Cina non è a rischio. Quello che è invece a rischio, altrettanto importante, è l’armonia che il governo considera il suo più grande valore nazionale, e senza il quale il regime troverà arduo sopravvivere.