Luca Pirondini, musicista, è il nome del futuro sindaco a 5 stelle di Genova?

di Franco Manzitti
Pubblicato il 6 Febbraio 2017 - 06:02 OLTRE 6 MESI FA

GENOVA – L’uomo che potrebbe far cadere la grande roccaforte rossa genovese, mai espugnata da una quarantina d’anni, se non per una breve parentesi degli anni Ottanta, è un quarantenne orchestrale del Teatro Carlo Felice, che con la sua immensa torre quasi inutile svetta nel centro della Superba. Si chiama Luca Pirondini e “suona” nell’orchestra del lirico genovese: è in pole position nelle eliminatorie del partito Cinque Stelle per conquistarsi il ruolo di candidato sindaco nelle prossime elezioni comunali genovesi.

C’è lui, poi ci sono una combattiva signora con origini greche, Marika Cassimatis, Enrico Petrocchi e un paio di altri per ora sconosciuti grillini, estratti dalla grande lotteria on line della Casaleggio&Associati. Sono i nomi sbucati da questa eliminatoria on line, dopo essersi proposti nell’iperscrutabile mondo grillino, quella selva oscura, per gli altri, dalla quale emergono i pretendenti alla suprema carica di sindaco. Il nome di Pirondini, che si è ovviamente proposto con una appassionata dichiarazione sui social, “frulla” da giorni non solo sul web, ma più in generale negli ambienti mezzi sigillati dei 5 Stelle e in quelli di una politica genovese complessivamente terremotata, mentre si sta aprendo la campagna elettorale più confusa che la storia repubblicana ricordi sotto la mitica Lanterna genovese.

Il bello è che il terremoto riguarda anche il partito del zeneise Beppe Grillo, nel quale c’è stata una clamorosa scissione. Il capogruppo in consiglio comunale, un ex animatore di strada, Paolo Putti, anche lui quarantenne, in carica da quasi cinque anni, è uscito dal Movimento insieme ad altri due colleghi in consiglio Comunale, Mauro Muscarà e Emanuela Burlando ed ha costituito un nuovo gruppo rimasto sui banchi del nobile palazzo Tursi, sede civica genovese.

Il nuovo gruppo si è battezzato “Effetto Genova” e si è organizzato come alternativa ai “traditori” Cinque stelle. “Non mi sento più dentro al Movimento, perché ha lasciato la strada intrapresa cinque anni fa e si concentra più sulle “cadreghe”, sul potere, che sull’obiettivo di stare vicino ai cittadini nelle loro grandi emergenze”, ha dichiarato Putti, che da mesi soffriva profonde divergenze con i suoi compagni di strada. La mossa consumata nella città di Grillo, alla vigilia di elezioni nelle quali il Movimento si gioca una partita importantissima, che potrebbe portarlo a conquistare, dopo Torino e Roma, un’altra grande città italiana, la quinta in classifica, sta suscitando potenti reazioni non solo nel gruppo grillino. Intanto uno dei consiglieri regionali eletti neppure due anni fa, Francesco Battistini, che aveva espresso solidarietà agli scissionisti comunali, è stato subito deferito da Grillo ai probiviri. E la “rivale” di Putti e dei fuoriusciti, la trentaduenne Alice Salvatore, vera star con targa Cinque Stelle, ha invano cercato di gettare acqua sul fuoco, dall’alto della sua leadership genovese e ligure, finora garantita da Grillo in persona.

La frattura nel gruppo dei 5 Stelle è oramai venuta completamenbte alla luce, al punto che da sinistra, ma non solo, c’è già chi cerca di attirare nel proprio giro politico i fuoriusciti grillini. Putti, un moderato nei toni e nelle battaglie di questi anni, si è conquistato, infatti, una stima generale, pressoché unanime in tutti i partiti e in particolare nella galassia di sinistra.

Tutto questo terremoto che scuote dalle fondamenta il partito di Grillo nella sua città non sembra però mettere in discussione le proiezioni che si fanno nella corsa elettorale e che vedono i 5 Stelle comunque in testa in ogni sondaggio e previsione. Nella complicata corsa verso la conquista del trono genovese non c’è chi non preveda che saranno loro sicuramente a giocarsi al ballottaggio la suprema carica e pochi immaginano una loro sconfitta, sia che si tratti di contesa con la sinistra del Pd e dei suoi probabili alleati o con la destra rimontante in una regione dove Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia sono non solo per ora uniti, ma dove un anno fa hanno conquistato a sorpresa la città di Savona, che era una altra roccaforte “rossa” da decenni.

La grande incertezza sulla quale si gioca una partita tanto favorevole ai grillini parte prima di tutto dalla non decisione del sindaco uscente di candidarsi ancora. Il sindaco marchese-rosso, Marco Doria non ha ancora sciolto la sua riserva e anche se ogni previsione lo indica intenzionato a non ripetere l’esperienza comunale dopo il primo mandato, il dubbio galleggia nel golfo di Genova come l’interrogativo numero uno.

Sembrava che tutto si chiarisse pochi giorni fa, quando Doria ha dato appuntamento in un luogo simbolo e con un personaggio simbolo per una discussione sui governi delle città. Il luogo era un circolo dei lavoratori portuali, piazzato proprio sotto la Lanterna e all’ombra della mitica sede della Compagnia dei portuali, i camalli, vera spina dorsale di una tradizione comunista e di sinistra. Il personaggio invitato era l’ex sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, politicamente“tinto” come Doria del colore arancione, lanciato dopo il suo primo mandato meneghino a costruire il suo “Campo progressista”, cioè un’area di sinistra-sinistra dove accogliere tutte le istanze che fremono a lato del Pd renziano. Confini precisi e obiettivi chiari per questo Campo. Tanto chiari che proprio dalla riunione genovese era venuta la delimitazione che escludeva da questa alleanza Angelino Alfano e il suo Ncd. “Per me sarebbe un incubo un’alleanza con lui”,  aveva dichiarato l’ ex primo cittadino milanese, per altro molto deciso nel delineare gli obiettivi della sua azione per costruire il suddetto campo.

Ebbene da quella riunione in casa dei portuali, in una giornata di dura tramontana, in un clima molto genovese, era uscito il quadro di una politica di sinistra-sinistra, maturata nel governo cittadino di Milano e Genova e proiettata su uno scenario più ampio. Ma non era uscita una parola dell’attesissimo Doria sul suo futuro, se non la certezza che egli sarà l’uomo di Pisapia in mezzo a questo campo progressista. Ma in quale posizione? Di sindaco ancora, presentato magari da una coalizione allargata al Pd (con il quale ha un rapporto pessimo) e alla Rete a sinistra, che raccoglie Sel e altre frange radicali o, semplicemente, di “federatore” di codesta nuova realtà, magari pronto a correre per un seggio parlamentare nelle possibili elezioni politiche?

Doria, che di quell’incontro è stato il fautore e il protagonista, ha parlato a lungo della propria esperienza comunale, descrivendo, però, sopratutto la sua grande solitudine e “la situazione di merda” (ha usato proprio la parola di Cambronne) nelle quali era stato lasciato durante le emergenze dai corpi sociali separati da lui, i partiti e i sindacati.

Ad ascoltarlo in silenzio, un po’ per pudore, un po’ per calcolo, un po’ per insondabili strategie partitiche, erano venuti, sotto la sferza di quella tramontana gelida, non solo molti esponenti del Pd a partire dal re-travicello, segretario provinciale, Alessandro Terrile, ma molti “dinosauri” del Grande Partito Rosso, che governa in secula seculorum la grande roccaforte zeneise, come Mario Margini, ex segretario regionale, pluriassessore comunale e regionale, Camillo Bassi, storico esponente di tante leadership, molti dei dissidenti alla linea renziana e un bel mazzo di personaggi della cosidetta intellighentia radical chic genovese come la ex potente Sovraintendente ai beni culturali-zarina Giovanna Rotondi Terminiello, perfino l’editore di Chiarelettere ed ex editore del Fatto quotidiano, Lorenzo Fazio. C’era anche, in prima fila, colui che una grande onda piddina, e non solo, spinge verso una ipotetica candidatura, caso mai Doria decidesse finalmente che lui non corre, Luca Borzani, presidente della Fondazione Cultura, factotum del Palazzo Ducale, il centro motore della ripresa culturale turistica genovese con le sue mostre e i suoi dibattiti di grande livello.

Tutti con il fiato sospeso, un po’ con benevolenza, un po’ con dissimulata rabbia, un po’ con sfiduciata attesa, ad ascoltare il duetto Pisapia-Doria, moderati da un molto consenziente Gad Lerner, molto soft nella sua mise in velluto color champagne, ma anche deciso nel chiedere due volte al sindaco-marchese rosso quale sarà il suo “percorso”.

E Doria, che ha sicuramente un dna altamente qualificato nella nobiltà della sua discendenza, da trentadue generazioni facenti capo al leggendario Andrea Doria, l’ammiraglio che fece grande la Superba nel sedicesimo secolo, ha usato tutto il suo tratto distaccato e aristocratico per aggirare l’interrogativo, che la platea era accorso a sentir porre: ti ricandidi oppure no?

Da sindaco uscente, non ancora del tutto emerso da cinque anni duri, il “marchese rosso” ha disegnato bene “il percorso” di chi va a governare una città all’alba consumata del terzo Millennio, con i fondi del governo tagliati, le diseguaglianze esplose con la globalizzazione e le ondate dei profughi, con gli schemi economici da rifondare in un sistema che cerchi di garantire lavoro. Ha perfino fatto un po’ di autocritica, inserendo in questo disegno o programma che dir si voglia, le infrastrutture, argomeno chiave per rompere l’isolamento aereo,e ferroviario e stradale genovese, da lui scavalcato cinque anni fa, parlando di treni veloci, di collegamenti più rapidi con la pianura padana e con Roma. Ma non ha rotto il tabù che riguarda la propria persona, e il suo futuro.

E così l’orizzonte di incertezza nel quale non solo tutti i gatti sono bigi, ma i Cinque Stelle sono i favoriti nella prossima battaglia comunale, non si è affatto schiarito. Il Pd, che oramai guarda nella sua maggioranza, non nella sua totalità, Doria come un ostacolo “procedurale” nella corsa verso la scelta di un candidato, è affondato fino al collo nelle sue plurime emergenze politiche.

Genova è una città non certo renziana, il cui ex leader post comunista, Claudio Burlando, sconfitto quasi due anni fa nelle elezioni regionali, gioca a tresette e va a cercare funghi e improbabili riscosse da eminenza grigia. La diaspora dalemiana, la lista possibile degli scissionisti, troverebbe qui il terreno fertile di chi già si è opposto a Renzi, i famosi “duecento” che hanno anche fondato organizzazioni culturali dai nomi accattivanti come “Il Pane e le Rose”, chissà con quali spine nell’arcipelago che fino a qualche mese fa elencava renziani, renzianissimi, post renziani , diverso renziani, appunto “dinosauri”, “reduci” e perfino “riservisti”, tanto per descrivere la molteplicità delle partiture piddine o democrat.

La “livella” del grande scontro dentro al Pd ha la possibile anticipazione di un congresso regionale che sani il commissariamento del Pd regionale, retto da oramai quasi due anni da David Ermini, renziano di ferro, responsabile nazionale Giustizia del Pd, mandato a sanare la ferita del dopo sconfitta regionale e un po’ insofferente di questo incarico senza soddisfazioni e con la prospettiva di vedere fiorire le beghe genovesi, quelle che in dialetto si chiamano “rattelle”.

Un congresso per mettere a tacere i pruriti di un establishment Pd a caccia di un candidato sindaco dove sono fiorite improvvise auto-candidature, come quella del professore pop di Estetica all’Università di Pavia, il filosofo Simone Regazzoni e dove sono state seppellite tante ipotesi di possibili “papi stranieri”, cioè candidati scelti fuori dai sempre più magri quadri del partito, il brillate professore di diritto pubblico Lorenzo Cuocolo, per esempio, un alto magistrato, il giovane presidente in pectore dell’Ascom, Alessandro Cavo, il costruttore anche presidente dell’Ance ligure Filippo Dellepiane, il professore e presidente degli Agenti Marittimi nazionali, Gian Enzo Duci.

Tutti consultati e che hanno risposto, lusingati ma decisi, che no, quel ruolo di sindaco è incompatibile con le loro carriere, con i loro impegni professionali. Tra questi dinieghi e lo scannamento interno, tra i vertici delle nuove leve e nel miscuglio con gli alleati di sinistra, derivati da cinque anni di Marco Doria, espressione della sinistra-sinistra e sulla deriva degli strappi forti al Pd di personaggi come Sergio Cofferati e Luca Pastorino, un eurodeputato Pd e un deputato Pd, la ricerca del candidato è stata ed è ancora come quella dell’araba fenice.

E ora il cerchio si stringe, il tempo incomincia a mancare e tutti i fari si puntano su quel Borzani che, appunto, viene come spinto in un angolo a dire per forza sì. In realtà quello che prevale sembra essere “lo sconfittismo”, cioè quella sensazione che ora è meglio perdere dignitosamente, riuscire almeno a contendersi il trono nel ballottaggio. Una specie di atmosfera simile a quella di Roma qualche mese fa, quando la vittoria di Virginia Raggi sembrava segnata in anticipo e quasi voluta dal Pd uscito con le ossa rotte dall’esperienza Marino.

Anche qui i democatici escono a pezzi dalla fase Doria, ammesso che ne siano usciti o che in qualche modo non ne restino ancora invischiati: è possibile oggi più che mai, dopo che il sindaco è apparso così ben inoltrato nel “Campo Progressista”.

Tutti questi conti così difficili da far quadrare, sia nell’ipotesi vincente che in quella molto più rassegnata e perdente, si fanno senza calcolare la presenza sul terreno della destra ringalluzzita come non lo è mai stata in Liguria dalla vittoria del 2015 in Regione, con l’alfiere numero uno Giovanni Toti e con la vittoria del 2016 a Savona, dove ha vinto Ilaria Caprioglio.

“Tutti uniti si vince anche a Genova”, strepita lo stesso Toti dai numerosi scenari e palcoscenici, che si è assegnato nella lunga transizione postberlusconiana. “Tutti uniti si vince” _ predica il governatore dalla Liguria dalla sua “reggia” genovese, in mezzo a Piazza De Ferrari, ma anche dalle poltroncine di Porta a porta, dove viene ospitato con grande frequenza o dalle pagine dei grandi quotidiani nazionali che lo intervistano continuamente.

Toti ha applicato la formula del successo per la prima volta a se stesso, quando ha sbancato la Liguria inaspettatamente. “Giovanni hai vinto tu”, gli dissero il giorno del risultato regionale facendo fatica a convincerlo che non era uno scherzo. E lui ha sempre spiegato che mettendo insieme Forza Italia alla Lega, in Liguria, molto forte, ben oltre il 20 per cento, e ai Fratelli d’Italia il risultato è sicuro. Ma poi c’è il candidato da trovare e anche qua l’operazione non è facile in una terra e in una città nella quale gli ultimi candidati a governare Genova sono stati due volte il professor Enrico Musso, di grandi speranze, poi deluse, una prima volta nel 2007 targato Forza Italia e la volta dopo nel 2012 capo di una sua lista civica “Oltremare” e prima di lui cavalli mandati coscientemente a perdere e solo nel 1997 vicini a una possibile vittoria al ballottaggio, con Sergio Castellaneta un focisssimo post leghista che aveva sconfitto la Destra ufficiale al primo turno.

Toti gioca a fare il tranquillo e sostiene che il candidato sindaco lui lo estrarrà dal cilindro solo due mesi prima del voto e spiazzerà tutti. A parte il potente assessore regionale leghista Edoardo Rixi pochi e improbabili nomi frullano per ora in quel cilindro: il deputato di FI Sandro Biasotti, già presidente della Regione nel 2000, un po’ datato, il manager Pierluigi Vinacci, genovese trapiantato a Milano, molto raccomandato dal medico personale di Berlusconi, Zangrillo, Ilaria Cavo una altra assessora della giunta Toti, giornalista Mediaset, famosa per i suoi scoop di cronaca nera e ora mediaticamente molto attiva. Gira anche, in questa giostra incontrollabile, il nome di Anna Pettene, una bella signora, molto ben maritata, perché è la moglie di Edoardo Garrone, primogenito di Riccardo, l’indimenticato leader imprenditoriale genovese, titolare della Erg, come il figlio anche presidente della Sampdoria.

Qualcuno osa anche il nome dell’altro figlio di Garrone, oggi vicepresidente della Erg, Alessandro Garrone. Ma questo valzer sembra ballato sulle punte di illazioni molto campate solo su chiacchere e voci di corridoio.

La vera musica per conquistare Tursi potrebbe suonarla in tutt’altro campo quel Luca Pirondini, orchestrale del nobile “Carlo Felice”, una volta che avrà superato i suoi concorrenti interni nel Movimento 5 Stelle e sarà passato oltre la “graticola” che Beppe Grillo gli ha preparato per diventare il primo cittadino della sua Genova.