Alluvione a Genova: stesso film da 60 anni, torrenti sporchi burocrazia incuria

di Marco Benedetto
Pubblicato il 10 Ottobre 2014 - 08:27 OLTRE 6 MESI FA
 Alluvione a Genova: stesso film da 60 anni, torrenti sporchi burocrazia incuria

L’alluvione che ha colpito Genova nella notte tra il 9 e il 10 ottobre 2014

GENOVA – L’alluvione di Genova era scritta nel muro delle facili previsioni. Bastava guardare il letto del Bisagno: nessuno poteva dubitare che con una pioggia robusta il Bisagno sarebbe straripato. Ma nessuno, nel groviglio delle competenze fra Stato, Regione, Comune e sotto l’effetto morfina della distrazione generale, se ne è voluto occupare.

Negli ultimi anni le alluvioni sono diventate quasi abituali. Basta inserire la realtà di casa nelle chiacchiere sul mutamento del clima per capire che le cose sono cambiate. Dopo la guerra, nel 1953, ci fu una alluvione che ormai solo i più vecchi ricordano, tremenda al punto da fare saltare la copertura d’asfalto sopra l’ultimo tratto del Bisagno, dalla ferrovia al mare. Poi ce ne fu una nel 1970, che ancora la ricordano, ma solo a parole.

Poi gli straripamenti dei torrenti, tutti assieme o uno o l’altro, sono diventate quasi routine.

Hanno messo in croce Marta Vincenzi perché non diede l’allarme nella alluvione del 2011. Ma non era sul mancato allarme che dovevano indagare, ma sui mancati scavi, sulla colpevole inerzia durata 40 anni.

Ripropongo quanto scrissi allora. Prende un groppo di amarezza: non c’è niente di diverso, nulla è cambiato. Scrivevo, su Blitzquotidiano, il 4 novembre 2011,

Sono passati esattamente quarant’anni da quell’ottobre del 1970 quando il Bisagno e altri torrenti, che scendono al mare nelle brevi ripide e tortuose valli ai due lati di Genova, strariparono. (Oggi il burocratese ha imposto esondare, termine che suona un po’ osceno, come il confratello evacuare).
Di solito il Bisagno e gli altri torrenti sono in secca, come sono stati migliaia e migliaia di anni. Ma quando piove, e da queste parti se piove è per davvero, sono guai.

Non sono, come amano dire i politici, eventi imprevedibili. Sono più che prevedibili. Magari non si sa quando, possono passarne venti di anni oppure 40, ma, inesorabile come la morte, l’alluvione arriva.
I più vecchi ricordano l’alluvione del ’53, che fu tanto violenta da fare saltare la copertura dell’ultimo tratto del Bisagno fatta tra le due guerre mondiali.
E poi quella del 1970, scandita da oltre 20 morti, tra Genova centro e gli ex comuni della costa limitrofa, ciascuno col suo torrente straripato.

Sono passati 41 anni esatti da questa ultima, come ne erano passati 17 dalla precedente. Avemmo, come avremo presto, funerali di Stato, decine di corone di fiori, una nuova alluvione di lacrime, comizi, proclami, disperazione, domande stupide del tipo “ma come può succedere”, la polemica sul sindaco che si deve dimettere perché non ha chiuso le scuole.
Solo nella Bibbia l’acqua si apre e si richiude senza preavviso, oggi persino gli tsunami vengono avvistati.

Su un punto non esiste dubbio: che poi tutto rientrerà nella routine del disinteresse.

In questi anni a Genova hanno fatto un acquario, costruito un inutile tendone di cemento su un molo del porto, buttato giù un monte, sì un monte, quello di San Benigno, e costruito al suo posto un grattacielo. Ma i soldi per mandare due ruspe a pulire il greto del Bisagno e degli altri torrenti non li hanno trovati.

Ho recuperato un articolo che scrissi per la Stampa nel 1971, nell’anniversario della alluvione. Rileggerlo mi ha dato grande pessimismo: da allora nulla è cambiato, forse, ma non sono in grado di accertarlo, sono riusciti in 40 anni a fare riconoscere dallo Stato l’esistenza giuridica del Bisagno. Per il resto, zero.

C’era, come c’è ancora, il problema delle competenze, compete allo Stato, alla Regione, alla Provincia, al Comune. Ma quando hanno dovuto trovare i soldi per opere di regime, allora l’accordo c’è stato, le difficoltà burocratiche si sono superate. Il problema è che i problemi della micro industria, l’assetto del territorio attorno a un fiumiciattolo sono fatiche immense, richiedono ore di lavoro, studio, concentrazione, mentre il ritorno in termini elettorali e di visibilità è assai misero. Per non dire che raspare il fondo di un torrente non è glamour, non fa titoli sui giornali, non dà occasioni da foto, da comizi. Non si deve dire che non dovevano ristrutturare i magazzini del cotone, dare nuova vita a una parte di porto in abbandono. Ma nessuno mi leva dalla testa che la convergenza di interessi economici, politici e banalmente di vanagloria ha fatto preferire le opere edili a quelle di manutenzione idrica.

Ve lo vedete un politico che fa un discorso, sulla riva di quel torrente maledetto, dove d’inverno picchia un vento gelido che ben conoscono generazioni di calciatori dilettanti che la domenica si misurano su quei campetti rubati all’acqua.

Proprio qui è la origine della tragedia. La fame di spazio di Genova ha spinto, sempre, a utilizzare quel torrente quasi sempre secco come valvola di sfogo per quelle attività che non avrebbero mai remunerato, ai tempi della Repubblica come oggi, i capitali investiti. Una volta, alla Foce, c’era il lazzaretto, proprio dove ora sorgono i bei palazzi bianchi che guardano il mare e la Fiera.

Se alla mancanza di spazio aggiungete la incapacità di programmare e pianificare della burocrazia di oggi, ecco che avete la ricetta che spiega quasi tutti i disastri. Una piccola nota: prendersela con i politici lo faceva anche Totò; la vera casta sono i burocrati, i funzionari e gli impiegati della pubblica amministrazione, intoccabili, insindacabili, ingiudicabili.

In questi anni, più volte sono passato per quel tratto di Val Bisagno che dalla Foce va al cimitero di Staglieno e all’autostrada, dominato dal carcere di Marassi e dallo stadio Ferraris. Ogni volta guardavo con una stretta al cuore il letto del Bisagno, notando che tutto era come 41 anni fa, forse un po’ peggio.

Nella mia memoria, l’alluvione del ’70, è più di un fatto di cronaca come tanti altri, perché la vissi da cronista, in diretta.

Dal finestrone dell’ufficio dell’Ansa in via De Amicis vidi arrivare l’acqua della piena attraverso l’angusta galleria che passa sotto la massicciata ferroviaria della stazione Brignole. L’acqua, uscita da quel piccolo tunnel con la forza di chissà quante atmosfere, invase tutta la grande piazza, entro nelle fondamenta del palazzo dove lavoravo e dove soprattutto si trovavano, allora, le rotative del quotidiano Il Secolo XIX, che non fu stampato per giorni.

I genovesi superarono lo choc, si misero al lavoro, tutto tornò a funzionare. I genovesi sono mugugnosi ma non piagnoni.

Il 1970 fu l’anno in cui si avviò quella infernale macchina mangiasoldi di sottogoverno e sprechi che poi si rivelarono essere le Regioni. Quella ligure cominciò a vivere con mesi di ritardo, perché, come ricordò il primo presidente, nei giorni in cui era prevista la cerimonia inaugurale c’era stata, appunto, l’alluvione.

Ma se oggi parliamo di Genova sommersa nel 1970, dobbiamo ricordare che due anni prima c’era stato il Piemonte sommerso, e due anni prima ancora c’era stata l’alluvione di Firenze, di cui molti anche dei più giovani avranno visto, nei passaggi in tv o in dvd, un coté comico in un episodio di Amici miei.

Anni prima ancora c’era stata la tragedia del Polesine, che commosse l’Italia appena uscita dalla guerra, che avvolse nella “catena della solidarietà” quelle povera gente contadina nello slancio di un’Italia più povera ma forse più solidale, anche se da quel terribile autunno del 1951 il Polesine non si è più ripreso.

L’elenco di questo genere sciagure è lungo, risale nel tempo, è un pezzo della storia d’Italia, è una voce di Wikipedia. Ma non voglio fare un trattato. Voglio solo dire che se l’abbandono del Polesine fu facilitato dal biblico passaggio dell’Italia da paese agricolo a industriale, questo non è possibile per grandi città popolate e ipercostruite dalla preistoria.

Il destino di Genova si specchia infatti in quello di Firenze, dove l’Arno non offre uno spettacolo molto rassicurante. Viene da pensare anche in questo caso, che è più facile, per la visibilità mediatica, rottamare che non pulire.

Foto da Twitter