Crisi & ripresa: banche Usa, profitti e brutti segni

di Marco Benedetto
Pubblicato il 19 Luglio 2009 - 12:57| Aggiornato il 13 Ottobre 2010 OLTRE 6 MESI FA

La gente come noi, fuori dai grandi giochi, non riesce a capire cosa stia davvero capitando nel mondo, quando sente parlare di crisi economica, di crisi finanziaria, di ripresa, di recessione, stagflazione. Capisce solo una cosa fin troppo bene, che è l’inflazione, anche i prezzi negli ultimi tempi hanno smesso di gloppare. Resta il mistero del carburante, restano i misteri delle bollette dell’Enel, ma quelli sono temi di fede, come appunto i misteri, ed è inutile volerli capire.

Han Paulson, ex capo di Goldman  Sachs e ministro del Tesoro con Bush

Han Paulson, ex capo di Goldman Sachs e ministro del Tesoro con Bush

C’è chi la crisi l’aveva prevista da tempo, e a questo si era preparato, vendendo tutto e facendo vendere, magari con ciò accelerando un processo comunque in atto; ma è così che credo agisca la speculazione, sfruttando un ciclo, forse amplificandone la curva, difficilmente determinandolo. C’è anche chi, pessimista per natura o per scelta, la crisi continuava a prevederla anche in tempi  di espansione. Alla fine ha avuto ragione, come ebbe ragione chi, quarant’anni fa, continuò a giocare  al lotto sul 67 ruota di Cagliari, che alla fine, dopo averne rovinati parecchi, uscì.

Sbaglia chi attribuisce la crisi a cause totalmente psicologiche. La presente crisi sembra un po’ peggio di quelle che ci hanno afflitto nel dopoguerra, anche se, affidandomi alla memoria, ne ricordo di  brutte davvero e forse anche peggiori. Abbiamo la memoria corta e tendiamo a dimenticare, addolcire, rimuovere.

I numeri dovrebbero essere un ancoraggio oggettivo, ma a noi gente comune arrivano i numeri in modo non organico, scoordinati e scollegati e certo anche filtrati un po’ dalla lettura politica e un po’ da una tendenziosità non sempre limpidissima.  rendere più complessa la lettura dei numeri c’è anche la crisi della pubblicità che affligge i mass media, in parte frutto della redistribuzione di carte in atto nel mercato, in parte anche alla crisi generale.

Possiamo discutere a lungo sulle cause della crisi e sulla sua ampiezza, ma tutti siamo d’accordo che c’è. Ormai il dibattito s’è infatti spostato sui tempi della ripresa: 2009, 2010, in quale mese, in quale trimestre?

Anche in questo caso nessuno dei grandi ci aiuta, perché ognuno filtra la lettura dei numeri secondo la propria  agenda, i propri interessi o gli interessi di cui è portavoce. Quando un economista dice che la crisi c’è ancora tutta, lo fa certamente perché i suoi modelli matematici lo portano a ciò, ma la richiesta di sussidi pubblici che ne consegue è oggettivamente a favore di interessi costituiti e cospicui.

L’impressione è che la faccenda sarà ancora lunga e di un bel po’, anche se poi dopo la ripresa sarà probabilmente più rapida del previsto, probabilmente non per l’occupazione ma certamente per le aziende, che di solito appprofittano dell’emergenza per fare un po’ di pulizia dalle cantine al sottotetto.

L’impressione è confermata dai risultati del secondo trimestre delle più grandi aziende americane e europee, in settori diversi, da General Electric a Nokia a Google a Fiat.

La conferma viene anche, paradossalmente, dai  risultati trimestrali delle grandi banche americane che, con eccezioni spiegate, sembrano essere tutte tornate in ottima salute. Non c’è dubbio che il fatto che sia scomparso da Wall Street un colosso come Lehman Brothers, fatto che  diede una spinta abbastanza forte all’aggravarsi della crisi sotto il regno di Bush, ha favorito i brillanti risultati di Goldman Sachs.

C’è però un altro elemento che ha senza dubbio giocato: i diversi criteri di imputazione di certe poste di bilancio delle  banche, come i crediti, di recente modificati, in modo favorevole alle stesse banche. Cito da un giornale sovversivo come il Wall Street Journal: “Poco dopo lo sprofondo dei mercati [nell’autunno 2008] un gruppo di società finanziarie ha preso di mira una regola contabile che le costringeva a mettere a bilancio i miliardi di dollari persi sui derivati sui mutui”.

Prosegue: “Impegnando milioni di dollari in una campagna di lobby, quelle società hanno persuaso alcuni esponenti chiave del Congresso di esercitare pressioni su chi definisce le regole contabili perché quelle regole fossero modificate, cosa che è avvenuta in aprile. Il risultato sarà un conto economico più ricco nel secondo trimestre”.

La cosa puntualmente si è verificata, con un positivo ricasco anche per i manager di quelle stesse banche che ancora pochi mesi fa avevano fatto ricorso agli aiuti pubblici. I finanziamenti pubblici  agevolati erano stati decisi dal  Governo Bush, di cui era ministro del Tesoro quel Paulson che fino a poco prima aveva occupato la poltrona di presidente di Goldman Sachs e che proprio in questi giorni è sotto attacco da  più parti proprio per la sua gestione della crisi.

Subentrando a Bush, Obama ha sottoposto le retribuzioni dei manager delle società che abbiano ricevuto aiuti dallo Stato a regole rigide e la cosa non è stata gradita per niente in un ambiente che ragiona a milioni, gente  potente, con molti tentacoli. Per continuare con i meccanismi retributivi come si erano evoluti, la prima cosa da fare era restituire allo Stato i suoi soldi, ma ci voleva una motivazione che tenesse, altrimenti qualcuno avrebbe anche potuto pensare che la gravità della crisi era stata forzata per ottenere gratis ingenti quantità di denaro. Non bastava dire: non ci servono più; ci voleva una base oggettiva. Niente di meglio del conto economico si prestava, ma andava opportunamente riaggiustato. Spesso, in quei gironi dell’alta finanza, molte cose sono puramente virtuali.

Nella realtà, invece, la situazione è brutta, anche perché, quando viene il momento del conto, qualcuno deve pagare: in contanti, il pubblico, con la carta, lo Stato, ma in natura nulla si crea e nulla si distrugge.

Quando poi arriva, alla fine di tutto, l’estratto conto della carta, qualcuno deve pagare e quel qualcuno siamo sempre  noi.