Il Pd, il Pdl e il bipolarismo alla italiana

di Marco Benedetto
Pubblicato il 16 Luglio 2009 - 21:10| Aggiornato il 13 Ottobre 2010 OLTRE 6 MESI FA

C’è un grande fermento nella politica italiana ed è un bene, anche se non siamo molto disposti a rendercene conto. Tutti a parole vogliamo il cambiamento, soprattutto per gli altri, ma nella realtà la condizione che prediligiamo è la conservazione dello statu quo: è nella natura umana, progresso senza avventure è una parola d’ordine universale.

I due schieramenti sono nati alla fine degli anni ’90, dal tentativo di liberare la vita politica italiana dall’instabilità propria del sistema elettorale proporzionale, sacrificando quel tanto di democrazia che c’è nel proporzionale per quel po’ di stabilità che viene dal maggioritario. Nelle intenzioni, si voleva avvicinare i singoli parlamentari agli elettori, legandoli al proprio collegio elettorale, sperando di superare, con un po’ di velleitarismo, il ruolo determinante dei partiti, la partitocrazia che tanto infastidisce chi dimentica come, da che mondo è mondo, la politica si faccia con i partiti, e che il loro peso è determinante ovunque, anche e soprattutto nelle democrazie più avanzate.

La differenza tra il sistema inglese e quello americano (per restare in quel mondo anglosassone cui piace tanto in Italia fare riferimento) è che a Londra il capo del partito di maggioranza diventa capo del Governo mentre a Washington il partito è defilato, ma proprio per questo ancor più potente, e, per vincere il consenso degli elettori manda avanti alcuni suoi uomini, di cui si costruisce il personaggio pubblico. Quando uno di costoro si impone all’attenzione internazionale, come un uomo nuovo, in realtà proviene da anni, decenni, di dura gavetta e carriera politica in un mondo politico tra i più duri del pianeta. Non fa eccezione il molto mitizzato Barack Obama le cui azioni politiche quotidiane, al di là dei bei discorsi da titolo sui giornali, sono continuamente condizionate dalle esigenze elettorali e di raccolta di contributi del partito.

Pretendere di eliminare i partiti dalla politica è come volere eliminare la legge di gravità dalla terra. «Senza un partito,un uomo politico non è nulla» scriveva lo storico inglese Ronald Syme, parlando di Roma antica. Questo era vero prima e sarà vero anche dopo, sempre. Cambiano le norme che determinano come un partito viene rappresentato negli organismi di governo, democratici ma anche non democratici, e in questo modo il partito può a sua volta rappresentare gli interessi delle classi e dei gruppi di cui è espressione.

I problemi di cui soffre oggi il sistema politico italiano sono problemi di crescita, di trasformazione. Essi sono frutto del contrasto tra la scelta, inevitabile, fatta dagli italiani a favore di un sistema elettorale che garantisca la stabilità di governo da una parte, cui si contrappone la varietà di interessi, non solo economici ma anche ideali, ideologici e culturali, che esprime una società complessa, articolata, evoluta come quella italiana. E questo è un fatto recente, molto recente: nell’Italia del Risorgimento e dei grandi Ideali, le donne non votavano, i poveri nemmeno, né gli analfabeti. Preferisco l’Italia di oggi, anche se questa Italia sceglie il Grande Fratello e non Henry James, preferisce Chi o Di Più a Micromega. La democrazia non viene gratis, ma non vorrei mai tornare indietro nel tempo, anche perché non saprei dire dove molti di noi sarebbero collocati.

Quando però si va poi a stipare nella gabbia del bipolarismo i cinque o sei poli che magnetizzano i voti oggi in Italia, allora è un altro paio di maniche. I problemi della sinistra, o del centrosinistra, sono forse più noti e dibattuti, perché la mancanza di un capo egemone li rende più evidenti: ma quelli della destra non sono minori, anche se oggi tutti è attenutato dalla forza di Berlusconi e da altre differenze che poi analizzeremo

A sinistra, trascurando partiti come Rifondazione e i suoi germogli e l’Italia dei valori che parte di quei germogli ha inglobato, i due gruppi più forti, nelle loro rispettive matrici, come il diavolo e l’acqua santa, letteralmente. Le classi sociali di cui sono espressione si sovrappongono abbastanza, Don Camillo e Peppone parlavano allo stesso gregge. Per questo sono lodevoli e da ammirare la buona volontà e l’impegno con cui i capi della sinistra si sforzano di rimuovere divergenze e rivalità storiche, anche se quando poi si va alla conta dei soldi, dei finanziamenti e di tutto quel che serve per fare  politica e trasportarci le idee, credo emergano fratture simili a quelle che dividono due aziende che si fondono: e è successo più di una volta che la fusione venisse disfatta. Ancora una volta non si può che ringraziare la legge elettorale che impone la coesione, anche se non c’è dubbio che il Pd è una specie di Frankenstein e c’è da preoccuparsi, leggendo sulla Stampa il cupo pessimismo di Arturo Parisi, il cui nome purtroppo è associato a poco gloriosi capitomboli della recente storia parlamentare della sinistra.

Gli attacchi di personaggi come Antonio Di Pietro e Beppe Grillo aggravano il disagio degli elettori di sinistra, già dimostrato nelle recenti elezioni, nei confronti della attuale nomenklatura del partito. Ben vero è che ciscuno di loro ha nel suo curriculum errori politici clamorosi, ma trovatene uno che non abbia commesso i suoi sbagli, nella storia recente come in quella più lontana. Ci sono eroi poi rotolati nel fango e ci sono reduci da sbagli micidiali cui il tempo e le circostanze hanno dato l’occasione di riscattarsi e diventare eroi planetari. Churchill è il caso più clamoroso e noto, ma Adenauer era un modesto ex sindaco di Colonia, ex assicuratore, con l’ombra di almeno una scorrettezza commessa (cose che oggi fanno dire: e ‘mbe’?), sfuggito al campo di concentramento solo perché aveva i figli al fronte: uno che gli inglesi scovarono per caso perché gli serviva un politico tedesco non compromesso col nazismo: è diventato uno dei padri dell’Europa di oggi.

Verrà da Franceschini, Bersani, Fassino, D’Alema, Rutelli un nuovo Adenauer? Perché escluderlo? Molto spesso sono le circostanze a fare l’eroe, più che le qualità individuali, di cui sono piene le fosse comuni. Certo è ingiusto aggredirli come dei buoni a nulla e anche peggio, a meno che non si cerchi la confusione per se stessa o per qualche altro incomprensibile fine. Per ora l’unico risultato è  la confusione che regna nel campo della sinistra, una cosa che  nemmeno il genio di Berlusconi avrebbe potuto immaginare con tanta ampiezza di respiro strategico.

Si deve invece dare atto ai capi del Pd che essi affrontano con dignità e senso di responsabilità due compiti immani in uno stesso momento: quello di mettere assieme tre anime, quella comunista, quella radicale e quella popolare-democristiana per farne un partito; e quello di fare fronte a uno come Berlusconi, genio del bene per chi lo ama, del male per chi gli è contrario, che in politica c’è entrato da poco, ma per il portone principale e ripetendo in questo campo il successo già avuto come imprenditore. In entrambi i casi, alla base del suo successo, insieme con tante altre ragioni che hanno meritato e meriteranno molti libri, c’è stato il sovvertimento delle regole del gioco esistenti.

In politica la sovversione ha consistito nel portare in gioco i fascisti o post fascisti, dopo quasi mezzo secolo di emarginazione e di isolamento; e di fare entrare nelle istituzioni della Repubblica i leghisti, che quelle istituzioni ancor oggi dicono di volere mandare a gambe all’aria. La differenza profonda tra il processo di amalgama del partito della sinistra e di quello della destra è che il primo nasce da una fusione tra uguali, il secondo nasce da annessioni.

La strada della sinistra è una strada obbligata, perché l’orgoglio comunista non accetterebbe mai di farsi obliterare da un moncone di quella Dc che ingenuamente gli ex Pci credevano di potere a loro volta obliterare; né d’altra parte gli italiani, dopo mezzo secolo di anticomunismo che dopo la fine dell’Urss qualche motivazione l’ha anche riscontrata, voterebbero in massa un partito troppo ex comunista. Questa strada è anche la più difficile, come dimostra l’esperimento europeo, tutt’altro che un successo sul piano dell’unificazione politica e come dimostra, in termini aziendali, l’infelice “fusione tra uguali” tra Mercedes e Chrysler, scioltasi dopo un bagno di sangue. Questa strada è anche piena di insidie, per le differenti spinte che vengono dalle diverse componenti elettorali.

Un partito di massa in un paese ricco articolato e evoluto come l’Italia non può rappresentare interessi ed è quindi portato a un certo strabismo. Questo è vero soprattutto per un partito di sinistra, perché le spinte della destra sono più univoche, meno confliggenti. Questo è vero dappertutto. La lezione recente di un grande paese occidentale come la Gran Bretagna è stata proprio questa: che un partito laburista orientato al centro batte la destra anche se guidato da uno come Tony Blair, che vale forse la metà di leader laburisti come George Wilson e anche dei nostri migliori della sinistra. Con grandi personaggi come i suoi predecessori, arroccati su posizioni dure e pure dettate dai sindacati ( il Labour party nacque come espressione politica dei sindacati,che ne determinavano la linea e la vita finanziaria) il partito laburista ha portato l’Inghilterra in braccio a Margaret Thatcher. (La crisi elettorale attuale ha altre origini e parlarne renderebbe questa nota ancor più prolissa).

Il principale pericolo per il Pd è rappresentato dalla tentazione di inseguire i voti sulla sinistra, spinto anche dall’emergere di personaggi come Di Pietro e Grillo. Si tratta di un rischio non trascurabile, che può portare al ripetersi del micidiale errore di avere dato a Di Pietro il noto seggio al Senato nel collegio del Mugello, questa volta ammettendo Grillo nel partito. Poiché si tratta di personaggi che seguono una propria agenda e ai quali del partito interessa molto poco, l’unico risultato, come dimostra il Mugello, è di dar loro una legittimazione, che non avrebbero altrimenti avuto. Miope si è rivelato anche, nel caso di Di Pietro, il ragionamento: se non veniva con noi sarebbe andato con Berlusconi, perché i fatti hanno dimostrato che a Berlusconi, se se lo fosse preso in casa, avrebbe dato il fastidio che ora invece sta dando alla sinistra. Ben diverso è stato il rapporto con la Lega, che non è un partito di umori ma di territorio. In questo caso la sinistra ha commesso l’errore di lasciarla andare, preferendole Rifondazione e ora Berlusconi se la tiene stretta .

Questi problemi non sembrano affliggere la destra, che, pur essendo composta da pezzi  molto disomogenei, con l’unica componente veramente di destra rappresentata dalla ex Forza Italia, strettamente abbracciata a una ex An che si autodefinisce di destra ma che resta difficile considerare tale a chi cerchi di ragionare fuori degli schemi convenzionali e applichi dei criteri oggettivi alla classificazione dei partiti. Ora appare piuttosto difficile ritenere di destra un partito che presidia in modo sempre più penetrante il mondo del lavoro e ha nel suo sistema anche un sindacato. Ho sentito dire di sindacati gialli, di sindacati non abbastanza attenti, ma sindacati di destra no.

La disomogeneità di base sociale è però superata, a destra, dalla annessione che Berlusconi ha compiuto di An, fino ad annullarla, come le azioni di una società incorporata. Nella storia, aziendale e politica, questo tipo di fusioni è quello che ha funzionato meglio, perché era chiaro fin dall’inizio chi stava sopra e chi sotto, chi aveva comprato e chi era stato venduto, chi aveva vinto la guerra e chi l’aveva persa. Così è stato per tutti i grandi paesi europei, Italia inclusa: che poi questo sia stato un bene per tutte le popolazioni interessate non si può proprio dire e bastano a provarlo il Meridione italiano, la Scozia e l’Irlanda. Per i sovrani che grazie quelle annessioni espandevano i loro domini non c’erano dubbi del successo.

Berlusconi non ha conquistato An con le armi né col denaro, ma con il fatto stesso di avere portato gli ex fascisti all’onore del mondo. Trent’anni fa i giornalisti della Stampa di Torino non fecero uscire il giornale perché il direttore, Giorgio Fattori, non aveva voluto rinunciare alla pubblicazione di una notizia di poche righe con titolo a una colonna, che annunciava un comizio in città del segretario del Msi Giorgio Almirante. Oggi il suo successore, Gianfranco Fini, è presidente della Camera, i giornali anche di sinistra intervistano lui, Alemanno, Gasparri, la moglie di Alemanno, figlia di uno che una volta nei giornali non potevi nominare, Pino Rauti, dispensa saggezza e serenità dalle pagine di Repubblica, non del Secolo d’Italia. Di tutto questo il merito va dato a Berlusconi. Se per l’Italia si tratta certamente di un fatto positivo, perché un paese, dove più o meno un elettore su dieci è considerato un topo da fogna, qualche problema nella sua capacità di rappresentanza politica ce l’ha. Ma per quegli ex reclusi nelle fogne, il legame che si è creato con il loro emancipatore è fortissimo e inossidabile e è presumibile che durerà finché sarà vivo lui.

Un altrettanto forte legame è quello di Berlusconi con Umberto Bossi: forte e stabile, perché Berlusconi sa che l’unico dei suoi alleati che lo può fare cadere è Bossi, perché lo ha già fatto, e quindi è pronto a quasi tutto per di tenerlo legato; ma anche Bossi, dopo l’esperienza negativa con la sinistra, sa che l’alternativa a Berlusconi non c’è.

Il silenzio degli ex An e della Lega (eccettuata una sparata di Bossi a favore del Capo) nello scandalo sulle abitudini sessuali di Berlusconi può essere frutto di imbarazzo, ma può anche dimostrare la consapevolezza che la destra per il momento non ha alternative a Berlusconi.

La sinistra ha il tempo di riorganizzarsi, rimescolarsi, ridefinire la sua strategia politica, lasciando a Berlusconi e ai suoi il tempo di logorarsi nell’azione di governo e nella difficile gestione della crisi.

Poi verrà il momento della verità, con o senza Berlusconi. Tutto dipenderà dalla capacità del Pd di parlare ai ceti medi, cosa tutt’altro che scontata, come ha dimostrato il governo di Romano Prodi. I voti da prendere sono tutti lì e sono tanti perché, a parte i sondaggi che solo Berlusconi conosce, solo un elettore su tre ha votato per Lui. Degli altri, molti, cui si aggiungono quelli numerosi che non si sono voluti esprimere, aspettano risultato e programmi per giudicare.