Bruno Contrada, condanna ingiusta. Una lezione alla nostra Giustizia

di Michele Marchesiello
Pubblicato il 15 Aprile 2015 - 06:59 OLTRE 6 MESI FA
Bruno Contrada, condanna ingiusta. Una lezione alla nostra Giustizia

Bruno Contrada, condanna ingiusta. Una lezione alla nostra Giustizia

ROMA – Nell’inerzia del legislatore italiano, la Corte Europea dei diritti dell’uomo sta sistematicamente rimodellando il sistema penale del nostro Paese. Non si sono ancora spenti gli echi della sentenza che condannava l’Italia per la mancata introduzione del reato di tortura. Il 14 aprile quella stessa Corte, accogliendo il ricorso promosso da Bruno Contrada (l’ex capo della Mobile di Palermo, condannato a in via definitiva a 10 anni di reclusione per il reato di concorso esterno in associazione di stampo mafioso, il famigerato articolo 416 bis del Codice Penale), ha giudicato lo Stato Italiano, attraverso i suoi giudici, colpevole della violazione dell’articolo 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo, in base al quale non si può essere puniti per un reato che non sia stato in precedenza descritto con sufficiente chiarezza dalla legge.

“Nullum crimen, nulla poena, sina praevia lege poenali”, come già dicevano i Romani dalla cui civiltà ci vantiamo, a torto, di discendere. La Corte di Strasburgo ha ritenuto che quel principio, cardine di ogni civiltà giuridica e di ogni autentica cultura della pena, sia stato violato dai giudici italiani nel condannare Contrada sulla base di un reato – il concorso esterno in associazione di stampo mafioso – che, all’epoca cui risalivano i fatti addebitati al poliziotto, non era sufficientemente chiaro e non poteva consentire all’imputato, nel momento in cui li poneva in essere, di percepire il carattere delittuoso dei comportamenti per cui lo si è condannato.

In realtà, il testo dell’articolo 416 bis non è stato precisato e reso più chiaro dall’intervento del legislatore, come ci si aspetterebbe alla luce dei principi che governano il nostro sistema costituzionale. Il testo della norma non è cambiato e – poco chiaro all’origine – è rimasto sostanzialmente immutato nella descrizione di quella che si chiama la ‘fattispecie criminosa’. A cambiarne e precisarne il senso sono stati i successivi interventi della Corte di Cassazione che, attraverso un percorso a dire il vero abbastanza tormentato, ha ‘rimodellato’ la norma, rendendola più comprensibile per i cittadini comuni.

La norma penale, in sostanza, non dovrebbe essere più solo quella testuale, scritta in termini più o meno chiari nel codice . Essa sarebbe, nella visione della Corte dei Diritti dell’Uomo, il risultato di quel testo originario più l’elaborazione giurisprudenziale svolta dai giudici della Cassazione, secondo il modello anglosassone della case-law. L’interpretazione che quei giudici danno della norma penale – quando uniforme e, come si dice, ‘consolidata’ – farebbe un tutt’uno con la norma di legge, ne integrerebbe il corpo, in un progressivo fenomeno che renderebbe , o almeno dovrebbe rendere la norma sempre più chiara e comprensibile per i cittadini.

L’intervento della Corte può considerarsi in questo senso rivoluzionario, rispetto a un sistema costituzionale come il nostro, basato sulla rigorosa separazione dei poteri: di quello legislativo ( in particolare quando si tratti della legislazione penale) da quello giudiziario, che può e deve ‘interpretare’ la norma ma non può nè deve integrarla: soprattutto alla luce del principio per cui nessuno può essere punito per una legge successiva ai fatti che gli sono addebitati.

In caso contrario, seguendo il ragionamento dei giudici di Strasburgo, il cittadino avrebbe non solo l’obbligo di conoscere la norma penale così come scritta nel Codice ( altro principio fondamentale: la legge penale non tollera ignoranza), ma quello – ulteriore e di improbabile attuazione – di tenersi informato sugli orientamenti della giurisprudenza al riguardo.

Un problema non secondario – lontano dal presentare una soluzione, allo stato attuale della normativa nazionale – riguarda le conseguenze della sentenza di Strasburgo sulla condanna patita e ormai interamente scontata da Contrada. Esclusa la revisione, la sola via praticabile sembrerebbe essere quella, nel caso in esame a dir poco paradossale, dell’azione di responsabilità nei confronti di tutti quei magistrati ( di primo e secondo grado, ma anche della Cassazione) che, erroneamente ritenendo applicabile a Contrada la norma originariamente poco chiara, resa intelligibile per via giurisprudenziale solo in epoca successiva ai fatti, hanno contribuito a determinarne l’ingiusta condanna.

I giudici italiani, in realtà, dovrebbero imparare dalla Corte di Strasburgo ad assumere sistematicamente il punto di vista e la prospettiva che li trasformano in interpreti e custodi, in prima battuta , della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo.