Lettera a Babbo Natale e un sogno: niente rating nel 2012

di Paolo Forcellini
Pubblicato il 20 Dicembre 2011 - 19:10 OLTRE 6 MESI FA

ROMA –  Caro Babbo Natale, quest’anno non ti chiederò regali troppo impegnativi. Capisco che la crisi vale anche per te e che dobbiamo tutti darci una regolata. Quindi non pretendo che tu sovraccarichi la tua slitta con un grosso pacco con su scritto “spread Btp-Bund a 30 punti” (come era ai primi tempi dell’euro) e neppure che tu riempia la gerla di qualche centinaio di miliardi da utilizzare per abbattere il nostro debito pubblico dal 120 al cento per cento del Pil. Mi basta un omaggio piccolo piccolo, in fin dei conti è il pensiero che conta, nevvero?

Caro Babbo Natale, fa in modo che nel 2012 le agenzie di rating se ne stiano zitte, la smettano di distribuire voti a vanvera, in particolar modo riguardo ai debiti sovrani e alle banche. Lo so che è brutto auspicare che qualcuno venga zittito, che gli si tolga la libertà di parola. Ma anche questa libertà ha dei limiti, dal divieto di diffamazione e di ingiurie a quello di aggiotaggio, e mi pare che le tre grandi regine del rating – Moody’s, Standard & Poor’s e Fitch – spesso vi ci si sono avvicinate e comunque con i loro giudizi, frequentemente infondati, hanno provocato danni enormi a milioni di persone e ancor più potrebbero provocarne nei prossimi mesi. Quindi, caro Santa Claus, San Nicola o come diavolo ti chiami, promettimi che dopo le feste gli metterai il bavaglio.

E se non sei del tutto convinto che questa sia una buona idea, leggi quel che segue. Sorvoliamo sui casi più “lontani” e più noti: dal caso Enron (quando le agenzie continuarono a dare ottimi voti alla società fino a quattro giorni prima del disastroso fallimento) al caso Lehman Brothers (anche qui non accorgendosi dello tsunami già in vista). E vediamo alcune delle gaffes più recenti. Come quella di Standard & Poor’s tra il 5 e il 6 agosto scorso, quando l’agenzia decretò il downgrading nientepopodimeno che degli Stati Uniti, provocando scombussolamenti e tremori in tutto il mondo, in primo luogo in Cina, paese che detiene la più grande quota del debito americano.

La poltrona del sottosegretario al Tesoro Usa vacillò seriamente. Poi tutto finì in burletta quando lo stesso Tim Geithner dimostrò che le motivazioni del declassamento erano inficiate da un errore di calcolo di duemila miliardi di dollari (confermo: 2.000). A distanza di quattro mesi da quel sindacabilissimo giudizio i buoni del Tesoro Usa hanno guadagnato in valore, il dollaro si è apprezzato dell’8,6 per cento rispetto alle principali valute mondiali, l’indice di Borsa delle maggiori società americane è cresciuto, i tassi pagati sui T-Bond sono crollati a un livello mai raggiunto dal 1950.

A questo punto l’intero top management di Standard & Poor’s avrebbe dovuto eclissarsi alla chetichella, rosso in viso, e la premiata ditta chiudere i battenti. E invece? Invece niente, come se nulla fosse successo. Del resto non era la prima volta: a due successive riduzioni del rating giapponese sancite da S&P (da AAA ad AA+ e da quest’ultimo ad AA-) hanno fatto seguito riduzioni (quindi miglioramenti) dei rendimenti dei titoli pubblici nipponici. I mercati, insomma, tendono a farsi abbindolare sempre meno dai voti delle tre “regine”. Che però conservano una grande rilevanza, basti pensare al fatto che molti investitori istituzionali, ad esempio molti fondi pensione, sono per statuto obbligati a investire solo in titoli con la tripla A, o al massimo con la doppia. Pensiamo al danno che i downgrading dei titoli italiani hanno provocato al collocamento dei nostri Btp, per quasi metà piazzati all’estero, in questa fase di crisi dei debiti sovrani. Nelle scorse settimane è stato più volte ventilato il declassamento del debito francese, senza che per il momento vi si facesse seguito.