Invece di patrimoniale secca prestito forzoso, e tagli la vita al debito

di Paolo Forcellini
Pubblicato il 30 Novembre 2011 - 16:30 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – In attesa che si possano commentare le “grandi innovazioni” che tutti attendiamo (e non solo le indiscrezioni che cambiano giorno per giorno), vale a dire il varo del primo “pacchetto” di misure di risanamento dei conti da parte del governo Monti e le auspicate fondamentali modifiche dei trattati Ue e delle prerogative della Bce, è forse il caso di riflettere su due o tre modeste proposte per contenere l’onere dello stratosferico debito pubblico italiano. Sappiamo tutti che con rendimenti fra il sette e l’otto per cento, quali quelli che lo Stato deve offrire attualmente, il bilancio pubblico, rebus sic stantibus, per molti anni a venire dovrà sopportare un servizio del debito rapidamente crescente e tale da costringere a pesanti sacrifici senza la possibilità di destinarne il ricavato al sostegno dello sviluppo.

Dai circa 71 miliardi di interessi che il Tesoro pagava negli anni scorsi sui 1.800-1.900 miliardi di debito, ci avvicineremo ai 90 l’anno prossimo e, a parità di ogni altra condizione, potremmo arrivare a 130-140 miliardi tra qualche anno. Questo perché i tassi che oggi l’Italia è costretta a pagare per via dell’incremento degli spread pesano sui conti pubblici solo per la parte di debito di nuova emissione, mentre i buoni “d’annata” continuano a costare fino alla scadenza interessi tra il due e il quattro per cento. Considerato che la durata media dei titoli pubblici italiani in circolazione è poco più di sette anni, ci vorrebbe qualche anno, e una situazione immutata sotto ogni altro aspetto, per arrivare al salasso pesantissimo di cui sopra. Ipotesi numero uno. Resta però il fatto che chi oggi acquista titoli decennali, ad esempio, ottiene un interesse superiore al sette per cento che, salvo catastrofi, continuerà a percepire per due lustri. Se volgiamo lo sguardo al passato, ci rendiamo conto che una trentina d’anni fa, nel 1982, la durata media dei titoli era di 1,13 anni, mentre ancora nel 1993 era arrivata a 3,33 anni. Continuando su un percorso “virtuoso”, la durata del debito è stata via via portata agli attuali sette e rotti anni.

Perché virtuoso? Perché è evidente che una durata più lunga evita il rischio che bruschi mutamenti negli equilibri finanziari interni ed internazionali si ripercuotano pesantemente e in brevissimo lasso di tempo sull’onere del debito se non anche sulla possibilità di collocarlo. Ma siamo sicuri che questa regola prudenziale sia oggi altrettanto aurea? Impegnarsi a pagare per un decennio (o un ventennio o un trentennio) interessi del 7-8 per cento è ragionevole solo se riteniamo che le attuali turbolenze e gli elevati spread si manterranno negli anni a venire o addirittura peggioreranno. Ma se questa è l’ipotesi, è più probabile che si arrivi a un default (ordinato, se si vuole) piuttosto che a una stabilizzazione di lungo periodo ai livelli odierni.

Se invece le nostre previsioni includono solo un pizzico di ottimismo (le riforme si faranno, la congiuntura interna e internazionale nel giro di un paio d’anni riprenderà un percorso di crescita), allora non è meglio cercare di evitare l’impegno a remunerare per decenni i titoli pubblici agli attuali, esorbitanti livelli? In questo secondo scenario, dunque, il Tesoro dovrebbe ingranare senza esitazioni la retromarcia sulla strada della durata media del debito. Aumentare al massimo le emissioni di titoli a sei mesi-un anno-due anni e ridurre al minimo quelle di Btp a più lunga durata. Qualcuno obietterà subito: si è manifestata nelle ultime settimane una “inversione della curva dei rendimenti”, vale a dire un fenomeno anomalo per il quale i titoli decennali sono collocati a tassi leggermente inferiori di quelli a più breve termine. Per solito i mercati considerano più rischiosi i titoli a lungo (perché “del doman non v’è certezza”) e quindi impongono per questi una remunerazione più elevata; nelle circostanze attuali, ritenendo che vi sia un rischio di insolvenza o di ristrutturazione del debito nell’orizzonte di uno-due anni, mentre i titoli a più lungo termine potrebbero in tutto o in parte sottrarvisi, gli investitori pretendono di più per acquistare Bot o titoli biennali.

Ma attualmente questa differenza non supera il mezzo punto. E’ forse più accorto, allora, emettere bond a sei mesi-due anni a un tasso vicino all’otto piuttosto che a cinque-dieci anni al 7,5 per cento, interesse che però rimarrà immutato per un lungo lasso di tempo, anche se lo spread tornasse ai 30 punti di qualche anno fa. Ipotesi numero due. Un’altra obiezione contro questo tipo di svolta nella politica della durata del debito pubblico è senz’altro più ragionevole: non è possibile pensare di azzerare le emissioni di titoli a più lungo termine. Si tratta di capire quale può essere il punto di equilibrio più soddisfacente, per le casse dello Stato, fra le emissioni a breve e quelle a medio e lungo termine, mantenendo come vincolo l’obiettivo di abbassare quanto più possibile in questa fase la vita media del debito. In ogni caso una quota significativa di titoli a lungo, anziché essere collocata sul mercato agli onerosi tassi odierni, potrebbe assumere la forma di un “prestito forzoso” (ce ne siamo occupati su “Blitz” il 10 novembre).

Anziché l’ipotizzata patrimoniale con un tasso molto leggero, che comunque finirebbe per pesare prevalentemente sul patrimonio immobiliare (già gravato dalla reintroduzione dell’Ici sulla prima casa e dalla revisione delle rendite catastali), i possessori di patrimoni superiori a una certa cifra (un milione?) potrebbero essere obbligati a investirne una percentuale (due per cento?) in titoli pubblici decennali a un interesse prossimo a quello dell’inflazione. Non v’è chi non veda come una misura del genere potrebbe venire accolta più favorevolmente della patrimoniale da quanti ne fossero colpiti e al tempo stesso alleggerirebbe le casse dello Stato da un consistente onere di interessi passivi. Riguardo alla patrimoniale, inoltre, si può obiettare che chi detiene una ricchezza immobiliare o artistica o anche in titoli o imprese, potrebbe avere serie difficoltà a realizzare la liquidità necessaria a pagare la nuova imposta. Nel caso del prestito forzoso, invece, i titoli sarebbero commerciabili:è chiaro che chi li mettesse sul mercato prima della scadenza o addirittura appena emessi andrebbe incontro a perdite in conto capitale, ma si tratterebbe comunque di una frazione dell’importo del prestito. Ipotesi numero tre. Torniamo per un attimo al passato.

A cavallo tra gli anni ‘80 e i ‘90, e prima ancora, lo Stato italiano ha pagato per lungo tempo interessi sui titoli pubblici a due cifre, persino superiori al 20 per cento. Vi era preoccupazione, certamente, ma non la drammatica consapevolezza che oggi abbiamo di essere a un passo dal baratro. Ciò dipendeva da svariati motivi. In primo luogo il debito, in percentuale del Pil e in quantità assoluta, era assai inferiore all’attuale. In secondo luogo l’inflazione, “la più iniqua delle tasse” (copyright Luigi Einaudi), viaggiava anch’essa a due cifre e quindi gli interessi reali erano relativamente contenuti. Probabimente proprio pensando a quelle circostanze, qualcuno ha di recente rispolverato la vecchia ricetta per ridimensionare il debito pubblico e l’onere per gli interessi: dare una spintarella ai prezzi. In apparenza è un gioco da ragazzi, un tocco di bacchetta magica: basterebbe aumentare di nuovo e consistentemente l’Iva (e magari anche le tariffe dei servizi pubblici e parapubblici), con benefici effetti per l’Erario, e la spinta sui prezzi non tarderebbe a farsi sentire. Ma rispetto agli anni ’70 e ’80 vi è una fondamentale differenza: ora facciamo parte dell’euro. Mentre allora la perdita di competitività, dovuta al differenziale d’inflazione con gli altri paesi, si poteva curare con una terapia a base di pillole di svalutazione, oggi questa strada ci è preclusa. E quindi anche la medicina-inflazione contro il debito pubblico avrebbe effetti collaterali disastrosi.