Pensioni regalate ai giornalisti parlamentari e sindaci, scandalo all’Inpgi

di Pierluigi Roesler Franz
Pubblicato il 28 Aprile 2015 - 07:32 OLTRE 6 MESI FA
Pensioni regalate ai giornalisti parlamentari e sindaci, scandalo all'Inpgi

Pensioni regalate ai giornalisti parlamentari e sindaci, scandalo all’Inpgi

ROMA – Pierluigi Roesler Franz ha pubblicato questo articolo anche sul sito sindacale Puntoeacapo col titolo: “Giornalisti, parlamentari e sindaci. Lo scandalo nascosto delle pensioni regalate dall’Inpgi”.

In questi giorni continuano a circolare con insistenza voci secondo cui l’Inpgi 1 intenderebbe apprestarsi a tagliare le future pensioni dei giornalisti o addirittura anche quelle già in essere.
Ma per una questione morale ormai improcrastinabile, non sarebbe forse opportuno bloccare prima le cosiddette doppie pensioni pagate dalla nostra categoria ai giornalisti eletti deputati, senatori, parlamentari europei, sindaci di grandi città, governatori di Regioni, eccetera, grazie alla distorta interpretazione dell’articolo 31 dello Statuto dei Lavoratori che incide pesantemente non solo sul bilancio dell’Inpgi 1, unico ente previdenziale privatizzato sostitutivo dell’Inps, ma anche sulle casse dello Stato che avrebbe pagato in circa 45 anni almeno 5 miliardi di euro (10 mila miliardi di vecchie lire)? Si tratta non solo di un onere pesantissimo, ma per di più privo di qualsiasi copertura finanziaria, come invece impone l’articolo 81 della Costituzione.
Facciamo un esempio pratico per far capire meglio di che si parla.
Che succede se il giornalista Mario Verdi, direttore di un grande quotidiano italiano o di un tg nazionale venga eletto deputato? Dovrebbe temporaneamente lasciare il suo posto di lavoro in azienda e per 5 anni ricoprire il mandato di “onorevole”. In questo lasso di tempo il suo posto in azienda sarà preso da un altro giornalista, ma Mario Verdi se non fosse poi rieletto avrà diritto di ritornare alla sua precedente occupazione di lavoro.
Ma quali sono le conseguenze della sua elezione alla Camera sotto il profilo previdenziale? Se Mario Verdi verserà la sua quota di contributi all’Inpgi 1 di circa il 9% della retribuzione avrà diritto a vedersi accreditare d’ufficio dall’ente previdenziale la quota del 25% circa che in precedenza versava la sua azienda. E quindi egli manterrà il suo livello pensionistico senza perdere nulla.
In aggiunta, però, beneficerà anche di un sostanzioso vitalizio graziosamente elargito dallo Stato.
Ecco quindi che finirà per percepire di fatto una sorta di doppia pensione pagata da “Pantalone”.
Conti alla mano se da direttore Mario Verdi guadagnava 300 mila euro l’anno, l’Inpgi 1 dovrebbe accollarsi ben 75 mila euro (pari al 25% di 300 mila euro) e nell’arco dell’intera legislatura ben 375 mila euro (=5 anni x 75 mila).
Ecco perché non sembra giusto che l’Inpgi 1 si sobbarchi oneri che non sono suoi proprio nel momento in cui si appresterebbe a tagliare le pensioni presenti e future dei giornalisti.
Il “pasticcio” della cosiddetta doppia pensione si incentra sull’articolo 31 della legge n. 300 del 20 maggio 1970, norma semisconosciuta dello Statuto dei Lavoratori di cui nessuno parla, a differenza di quanto avvenuto per l’ormai famigerato ed ultra noto art. 18 in tema di licenziamento per giusta causa da un’azienda (vedi sotto l’allegato 1).
Infatti, la classe politica con grande abilità e furbizia ha sinora evitato di autoflagellarsi, come se i sacrifici li dovessero pagare solo tutti gli altri cittadini, riservandosi una zona franca, pressoché intoccabile, nel labirinto pensionistico. E grazie ad una stravagante invenzione giuridica assolutamente di parte e a un tacito accordo trasversale e bipartisan, migliaia di ex deputati e senatori – e tra questi molti giornalisti – in 45 anni hanno potuto graziosamente usufruire delle cosiddette doppie pensioni a spese dello Stato, cioé fino al 1999 “pago ZERO, ma prendo 2“ (in altri termini pago 0 e incasso il 200%), mentre dal 2000 in poi “pago un terzo, ma prendo 2“ (in altri termini pago il 30% e incasso il 200%)!
Una norma assolutamente corretta e garantista nelle intenzioni del professor Gino Giugni, padre dello Statuto dei lavoratori, ha avuto così nella realtà disastrosi effetti nel bilancio dello Stato e di istituti previdenziali come l’Inps o l’Inpgi 1. Quest’ultimo ente ha subito ingiustamente dei pesanti contraccolpi dall’articolo 31 dello Statuto dei lavoratori proprio perché ha dovuto coprire in 45 anni – cioé dal 1970 ad oggi – “buchi” contributivi figurativi di direttori, vice direttori, inviati speciali, capi redattori di giornali, agenzie di stampa, radio e tv che al momento dell’elezione godevano di stipendi molto elevati e ben al di sopra della media italiana delle pensioni.
Eppure l’articolo 31 dello Statuto dei lavoratori era stato correttamente creato proprio per garantire a qualunque cittadino eletto deputato, senatore, consigliere o presidente di Regione, sindaco di grandi città (poi questo sacrosanto diritto é stato esteso anche ai deputati del Parlamento europeo) di mettersi in aspettativa e di poter conservare il precedente posto di lavoro fino al termine del mandato, mantenendo anche una adeguata copertura previdenziale.
In pratica, come detto prima, se un giornalista o un qualsiasi altro lavoratore dipendente pubblico o privato viene eletto deputato, il suo posto di lavoro, finché resterà in carica come onorevole, potrà essere preso temporaneamente da un altro lavoratore. Ma una volta cessato l’incarico a Montecitorio, l’ex deputato potrà tranquillamente tornare al suo vecchio posto di lavoro in azienda, mentre il suo sostituto dovrà andarsene. Per tutto questo periodo all’ex onorevole dovrà anche essere assicurata la precedente copertura previdenziale senza alcun “buco contributivo”.
Fin qui non ci si potrebbe quindi scandalizzare e al compianto professor Giugni non si potrebbe rimproverare nulla, perchè leggendo e rileggendo o imparando anche a memoria l’art. 31 tutti sarebbero concordi nel ritenerla una disposizione assolutamente garantista e corretta.
Senonché c’é un trucco nascosto e nella pratica tale norma di garanzia è stata abilmente manipolata.
Ma di chi la colpa? E’ l’effetto di una subdola interpretazione del significato del termine “vitalizio” che – in virtù della cosiddetta “autodichia” e autonomia assoluta di bilancio di Montecitorio e di palazzo Madama che impedisce sul nascere qualsiasi successivo controllo da parte della Corte dei Conti – la Camera e il Senato hanno elargito alla fine del loro mandato anche agli ex deputati ed ex senatori che avevano mantenuto la copertura previdenziale grazie all’articolo 31.
Ebbene anch’essi hanno avuto diritto a tenersi stretto il vitalizio grazie alla stravagante interpretazione che il vitalizio non potesse essere considerato una pensione. Pertanto in circa 45 anni migliaia di ex parlamentari e tra questi moltissimi giornalisti hanno di fatto messo in tasca una sorta di doppia pensione pagata da “Pantalone” senza che la legge lo prevedesse espressamente.
Per la precisione per deputati, senatori, europarlamentari, governatori di Regioni e sindaci di grandi città, che prima di essere eletti avevano già una posizione previdenziale aperta a loro nome, fino al 1999 scattava una doppia pensione interamente gratis, in quanto l’intero costo dei contributi era a carico di ciascun ente previdenziale presso cui era già iscritto il parlamentare, mentre per 3/4 gratis dal 2000 in poi, in quanto l’art. 38 della legge finanziaria n. 488 del 1999 (vedere allegato 2 in calce) ha in parte ridotto il “regalo” dello Stato, prevedendo che se il deputato voleva incrementare i suoi contributi doveva comunque versare di tasca propria la quota di sua competenza (circa il 9%) come lavoratore subordinato. Restava, invece, a totale carico del rispettivo ente previdenziale (Inps, ex Inpdap, Inpgi, ecc.) la pesante quota (variabile dal 22% al 31%) per i contributi figurativi sulla futura pensione, quota che fino all’elezione veniva pagata dal datore di lavoro.
Parallelamente é aumentata nel corso del tempo anche la platea dei beneficiari dell’art. 31 che comprende anche i dipendenti di enti pubblici (in genere) eletti nei Consigli regionali, in base all’intervento di interpretazione autentica, operato con l’art. 22, comma 39, della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure per la razionalizzazione della finanza pubblica).
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Ecco una semplice quanto elementare proposta che risponderebbe ai requisiti di buon senso e di equità e che si attaglierebbe perfettamente sia alla formulazione letterale dell’art. 31 della legge 300 del 1970, sia alla spending review, rispettando in pieno il principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 della Costituzione che oggi è, invece, palesemente violato.
In via interpretativa e in sede di autodichia le Presidenze di Montecitorio e di Palazzo Madama dovrebbero formalizzare una sorta di gentlemen’s agreement, in base al quale senza bisogno di alcuna legge “i lavoratori eletti deputati o senatori (lo stesso discorso dovrebbe valere naturalmente per i consiglieri e presidenti di Regione, per i sindaci di grandi città e per gli eurodeputati) hanno diritto a mantenere il loro precedente posto di lavoro per tutta la durata del mandato e a vedersi accreditare, rispettivamente, dalla Camera o dal Senato i contributi previdenziali originariamente versati dall’azienda o dall’ente presso cui prestavano lavoro dipendente. Resta, tuttavia, a esclusivo carico di ogni deputato e senatore la quota di contributi già di sua spettanza come lavoratore dipendente, come già prevede l’art. 38 della legge n. 488 del 1999. I deputati e i senatori già iscritti ad enti previdenziali prima della loro elezione non hanno diritto di percepire alcun vitalizio da Camera o Senato. Hanno, invece, diritto a percepire il vitalizio da Camera o Senato solo quei deputati e senatori non iscritti ad enti previdenziali prima della loro elezione”.
In sintesi, un giornalista o un qualsiasi altro lavoratore (magistrato, avvocato dello Stato, manager, dirigente bancario, pilota, medico ospedaliero, professore universitario, ambasciatore, insegnante di scuola o di liceo, generale, ammiraglio, militare, carabiniere, poliziotto, sindacalista…) eletto deputato o senatore avrebbe diritto a mantenere il precedente posto di lavoro per tutta la durata del mandato parlamentare e a vedersi poi accreditare i contributi nello stesso identico modo in cui avveniva prima della sua elezione, cioé pagando la propria quota di competenza.
Pertanto la Camera o il Senato dovrebbero semplicemente sostituirsi all’azienda per i contributi relativi alla sola parte datoriale, mentre il deputato o il senatore dovrebbe continuare versare la sua quota di pertinenza così come già avveniva in precedenza. Ma senza più godere successivamente di alcun vitalizio a spese di Pantalone. Altrimenti continuerebbe di fatto a scattare ingiustamente la seconda pensione gratis per l’ex senatore o l’ex deputato per lo stesso periodo di tempo di permanenza a Palazzo Madama o a Palazzo Montecitorio.
Naturalmente lo stesso discorso dovrebbe valere per i consiglieri e presidenti di Regione, per i sindaci di grandi città e per gli eurodeputati.
Come é ovvio questa normativa non potrebbe avere effetto retroattivo (anche se sarebbe forse giusto farlo), ma costituirebbe comunque un atto di buona volontà delle Camere nei confronti dei cittadini e nessuno potrebbe più lamentarsi degli ingiustificati privilegi finora goduti da ex deputati ed ex senatori.
Peccato che tra le migliaia di proposte di legge presentate in questa legislatura a Montecitorio e a palazzo Madama non ve ne sia nessuna che preveda espressamente l’abolizione della doppia pensione per i parlamentari.
Viceversa ci aveva pensato quattro anni e mezzo fa nella passata legislatura l’ex Presidente del Consiglio Enrico Letta che fu il primo firmatario di un’apprezzabile e condivisibile proposta di legge per abolire i vitalizi dei parlamentari (la n. 3981). Ma il documento rimase, però, lettera morta, finendo così in un cestino di Montecitorio senza neppure essere stato mai esaminato dalla Commissione Affari Costituzionali della Camera.
In conclusione, occorre quindi rimediare al più presto, rimettendo le cose finalmente al loro posto con saggezza, equilibrio ed equità e rispettando, proprio in un tempo come questo di gravi ristrettezze economiche, gli obiettivi primari del governo Renzi, cioé quelli di ridurre, tagliare ed evitare sperperi e sprechi.
* Componente del consiglio consultivo di Puntoeacapo

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Allegato 1

Art. 31 dello Statuto dei lavoratori, approvato con legge n. 300 del 20 maggio 1970. (Aspettativa dei lavoratori chiamati a funzioni pubbliche elettive o a ricoprire cariche sindacali provinciali e nazionali).

“I lavoratori che siano eletti membri del Parlamento nazionale o di assemblee regionali ovvero siano chiamati ad altre funzioni pubbliche elettive possono, a richiesta, essere collocati in aspettativa non retribuita, per tutta la durata del loro mandato.
La medesima disposizione si applica ai lavoratori chiamati a ricoprire cariche sindacali provinciali e nazionali.
I periodi di aspettativa di cui ai precedenti commi sono considerati utili, a richiesta dell’interessato, ai fini del riconoscimento del diritto e della determinazione della misura della pensione a carico della assicurazione generale obbligatoria di cui al regio decreto-legge 4 ottobre 1935, n. 1827, e successive modifiche ed integrazioni, nonché a carico di enti, fondi, casse e gestioni per forme obbligatorie di previdenza sostitutive della assicurazione predetta, o che ne comportino comunque l’esonero.
Durante i periodi di aspettativa l’interessato, in caso di malattia, conserva il diritto alle prestazioni a carico dei competenti enti preposti alla erogazione delle prestazioni medesime.
Le disposizioni di cui al terzo e al quarto comma non si applicano qualora a favore dei lavoratori siano previste forme previdenziali per il trattamento di pensione e per malattia, in relazione all’attività espletata durante il periodo di aspettativa.”

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Allegato 2

La “pezza” del 1999

Gazzetta Ufficiale n. 302 del 27-12-1999
(Supplemento Ordinario n. 227)
LEGGE 23 dicembre 1999, n. 488 – Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2000).
Art. 38 (Contributi pensionistici di lavoratori dipendenti che ricoprono cariche elettive e funzioni pubbliche)

1. I lavoratori dipendenti dei settori pubblico e privato, eletti membri del Parlamento nazionale, del Parlamento europeo o di assemblea regionale ovvero nominati a ricoprire funzioni pubbliche, che in ragione dell’elezione o della nomina maturino il diritto ad un vitalizio o ad un incremento della pensione loro spettante, sono tenuti a corrispondere l’equivalente dei contributi pensionistici, nella misura prevista dalla legislazione vigente, per la quota a carico del lavoratore, relativamente al periodo di aspettativa non retribuita loro concessa per lo svolgimento del mandato elettivo o della funzione pubblica. Il versamento delle relative somme, che sono deducibili dal reddito complessivo risultando ricomprese tra gli oneri di cui all’articolo 10, comma 1, lettera e), del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n.917, deve essere effettuato alla amministrazione dell’organo elettivo o di quello di appartenenza in virtù della nomina, che provvederà a riversarle al fondo dell’ente previdenziale di appartenenza.
2. Le somme di cui al comma 1 sono dovute con riferimento ai contributi relativi ai ratei di pensione che maturano a decorrere dal 1° gennaio 2000.
3. I lavoratori dipendenti di cui al comma 1, qualora non intendano avvalersi della facoltà di accreditamento dei contributi di cui al comma 1 medesimo secondo le modalità previste dall’articolo 3 comma 3 del decreto legislativo 16 settembre 1996, n. 564 e successive modificazioni, non effettuano i versamenti relativi.
4. I soggetti di cui al comma 1 dell’articolo 3 del decreto legislativo n. 564 del 1996, che non hanno presentato la domanda di accredito della contribuzione figurativa per i periodi anteriori al 31 dicembre 1998 secondo le modalità previste dal comma 3, articolo 3, del decreto legislativo, 16 settembre 1996, n. 564 e successive modificazioni, possono esercitare tale facoltà entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge.
5. A decorrere dal 1o gennaio 2000 il diritto agli sgravi contributivi previsti all’articolo 59 del decreto del Presidente della Repubblica 6 marzo 1978 n. 218 e successive modificazioni e integrazioni è riconosciuto alle aziende che operano nei territori individuati ai sensi dello stesso articolo come successivamente modificato e integrato che impiegano lavoratori anche non residenti per le attività dagli stessi effettivamente svolte nei predetti territori.
6. La disposizione di cui al comma 5, si applica anche ai periodi contributivi antecedenti il 1° gennaio 2000 e alle situazioni pendenti alla stessa data; sono fatte salve le maggiori contribuzioni già versate e le situazioni oggetto di sentenze passate in giudicato.