Corea del Nord: i piani di attacco di Trump. Ma rischia Seoul bombardata
Pubblicato il 6 Luglio 2017 - 14:16 OLTRE 6 MESI FA
NEW YORK – Un piano c’è, ma presenterebbe un conto salatissimo. Non è difficile immaginare che ‘The Donald’ gliela farebbe volentieri vedere lui a quel dittatore di Kim Jong-un se solo potesse. Ma se i piani di attacco sono già pronti e in mano al presidente Usa, il rovescio della medaglia è che porre fine alla dittatura di Pyongyang con la forza costerebbe nella migliore delle ipotesi decine di migliaia di vite umane. In gran parte sudcoreane. Conoscendo il carattere del personaggio così non esattamente propenso alla mediazione che è diventato il 45esimo presidente degli Stati Uniti, quasi stupisce la pazienza mostrata da Trump al di fuori di twitter nei confronti della Corea del Nord. In fondo Pyongyang da quando l’ex immobiliarista è entrato alla Casa Bianca ha fatto un salto di qualità nella sua pericolosità unendo alla retorica i missili. Eppure ‘The Donald’, al di là di qualche esercitazione militare e sfoggio di muscoli da lontano, non ha sostanzialmente reagito. Questo non perché non voglia, ma perché non può. I suoi generali, e in particolare il generale Vincent Brooks, comandante delle forze Usa a Seul, hanno parlato di “autocontrollo, che è una scelta, e l’unica cosa che separa l’armistizio dalla guerra”.
Chiaro riferimento al fatto che tra Washington e Pyongyang vige solo un cessate il fuoco dopo la guerra del 1950-1953 scatenata da Kim Il Sung, fondatore della dinastia nordcoreana e nonno di Kim Jong-un, e altrettanto chiaro riferimento al fatto che quell’autocontrollo ha una misura precisa. Seppur gli Stati Uniti e gli alleati sudcoreani hanno infatti una superiorità militare schiacciante e gli Usa potrebbero lanciare una pioggia di missili da crociera, da navi e sottomarini, non riuscirebbero comunque a distruggere la potenza di fuoco di Pyongyang prima che questa colpisca per rappresaglia i due più immediati vicini e alleati di Washington: Seoul e Tokyo. La capitale della Sud Corea è a 40 km circa dal 38° parallelo, linea di confine con la Nordcorea, dove sono schierati circa 13.600 tra cannoni e sistemi lanciarazzi di Pyongyang.
“È stato calcolato che con una cadenza di cinque colpi al minuto per pezzo, sulla capitale sudcoreana pioverebbero 1.000 tonnellate di esplosivo ogni 60 secondi – riporta Guido Santevecchi sul Corriere della Sera -. In un quarto d’ora si arriverebbe all’equivalente della Bomba di Hiroshima. Nell’area di Seul vivono 25 milioni di persone: ci sarebbero 2.811 morti alla prima scarica, 64 mila il primo giorno, dicono proiezioni fredde e spietate. Ma realistiche. Oltretutto, uno strike ‘di precisione’ americano non avrebbe alcuna certezza di riuscire ad annientare le postazioni missilistiche nemiche. I nordcoreani ora usano lanciatori mobili: lo Hwasong-14, a giudicare dalle foto diffuse da Pyongyang, era collocato su un veicolo di fabbricazione cinese che si può spostare in continuazione rendendo difficilissima l’individuazione”.
Senza contare che Pyongyang dovrebbe avere a disposizione anche arsenali chimici e biologici e almeno una dozzina di bombe nucleari e missili che, prima ancora del recente test di ordigni intercontinentali alla radice dell’ultima escalation della tensione, potrebbero raggiungere non solo la Corea del Sud ma anche il Giappone. Con lanci multipli che potrebbero essere difficili da intercettare completamente anche per i sofisticati sistemi di difesa anti-missilistica americani. Vista la situazione anche un carattere focoso come quello del presidente Usa punta quindi ancora sulla via della mediazione, pungolando la Cina nella speranza che questa riesca a risolvere un problema gravido di potenzialmente tragiche conseguenze. Pechino per ora, insieme a Mosca, condanna la politica di Kim Jong-un e i suoi lanci ma è recalcitrate a imporre sanzioni o peggio. E allora, quali sono le alternative se la via del dialogo non funziona e se l’opzione militare è impraticabile? Sostanzialmente due: l’eliminazione di Kim Jong-un o il rovesciamento completo della politica Usa nella regione.
Per la prima delle due ipotesi, che nella storia a stelle e strisce ha avuto esiti altalenanti, Seul ha organizzato una brigata di circa duemila uomini che si addestrano a questo compito. Mentre gli americani hanno imbarcato sulla portaerei Carl Vinson, che in primavera ha pattugliato la costa della penisola, lo stesso team dei Navy Seal che eliminò Osama Bin Laden. Ovvio è che un’azione del genere, fallendo, aprirebbe di fatto la strada alla guerra. Con il già citato insostenibile costo di vite umane. Oppure, come suggerisce il professor Allison di Harvard, accettare il fatto compiuto della potenza nucleare e missilistica di Kim; conviverci come fece l’America con l’Urss di Stalin e la Cina di Mao (che non usarono mai quelle armi anche se all’epoca erano considerati dittatori spietati e inaffidabili) e proporre ai cinesi un cambio di regime a Pyongyang contestuale ad un ritiro delle forze americane dalla Sud Corea. Costituire poi un gigantesco fondo da centinaia di miliardi di dollari per la riunificazione coreana con capitale Seul e, aggiungiamo noi, vivere in mondo migliore.