Fabbricare e uccidere un figlio per 80mila euro

di Riccardo Galli
Pubblicato il 23 Gennaio 2015 - 13:14 OLTRE 6 MESI FA
Fabbricare e uccidere un figlio per 80mila euro

Foto d’archivio

ROMA – Nel racconto di una storia è buona norma cominciare l’esposizione con un riassunto per sommi capi della vicenda. Ma in questo caso, prima dei fatti, è indispensabile una premessa, perché la storia che arriva da Corigliano Calabro, se le accuse verranno confermate, è diversa da tutte le altre mai lette e raccontate. Si tratta infatti di una storia di frodi alle assicurazioni ma, in realtà, non c’entrano in questo caso i soldi e non c’entra la povertà. Nella storia che arriva dalla Calabria e che racconta di presunte truffe, di medici che paiono compiacenti e personaggi senza scrupoli, la vera ed unica protagonista è la totale assenza di umanità.

La vicenda, per la quale forse è lecito sperare in un abbaglio giudiziario, è quella di una madre che stando alle accuse decide, scientemente, di porre fine alla vita ancora nemmeno iniziata del feto che porta in grembo. E decide di farlo nel modo più infimo che genitore possa anche solo pensare, e cioè procurandosi un aborto al settimo mese e lasciando poi morire il feto nato vivo e sano. Il tutto per intascare i soldi dell’assicurazione: 80mila euro secondo il Corriere della Sera, ma poco cambierebbe anche se fossero stati 8 od 80 milioni di euro. Ad aiutare la donna secondo l’accusa è stato un medico che insieme a questa lascia morire deliberatamente il piccolo: si tratterebbe di Sergio Garasto, professionista molto noto a Corigliano, più volte candidato nelle fila del centrodestra sia alle comunali (404 voti) che alle provinciali (682 preferenze).

La cronaca racconta di una donna, Stefania Russo, 37enne già madre di un bambino, che nel 2012 si presenta al pronto soccorso raccontando di essere stata vittima di un incidente stradale. Conseguenza dell’incidente è, essendo la donna incinta al 26esima settimana, un aborto. Testimoni e medico di turno, Garasto appunto, raccontano che la donna si presentò con il feto già espulso, ma ancora legato col cordone, e di inutili tentativi per salvarlo. Un’infermiera ricorda poi che il piccolo, di poco meno di un chilo, era comunque vivo, “muoveva le manine” dice la donna.

Gli investigatori ricostruiscono però una storia diversa. La donna si presenta al pronto soccorso sì, ma l’incidente secondo l’accusa è inventato e l’aborto non è spontaneo ma procurato. Il medico che l’assiste certifica che il feto è espulso e attaccato alla madre, ma invece di assisterlo e salvargli la vita, cosa tecnicamente persino quasi semplice con le moderne tecnologie, non fa nulla e anzi nemmeno recide il cordone ombelicale lasciandolo semplicemente morire il piccolo.

Il condizionale è quindi ancora d’obbligo. Non c’è nessuna sentenza e, per ora, si tratta solo di accuse e della ricostruzione fatta dagli inquirenti. Ma anche se tutti fatichiamo a credere possibile una storia del genere e speriamo che non sia vera, difficile è immaginare un simile abbaglio da parte delle forze dell’ordine.

Fabbricarsi ed ammazzare un figlio per 80mila euro quindi. L’ipotesi è che la donna in questione abbia deciso di rimanere incinta proprio allo scopo di truffare l’assicurazione e, a supporto di questo, alcune intercettazioni telefoniche. Ma prima ancora di valutare le conseguenze penali delle azioni di queste persone, i fatti narrati aprono inquietanti interrogativi. Come può un medico prima condividere idealmente un simile piano e poi osservare un esserino che muove le manine, respira, lotta per la vita sporco di sangue ed attaccato al cordone ombelicale e lasciarlo morire senza battere ciglio? E come può, una madre, programmare una gravidanza, un aborto ed un omicidio per truffare un’assicurazione?

Senza falsi moralismi, è noto e spiegabile il fenomeno per cui in alcune zone del pianeta, arretrate culturalmente ma soprattutto alle prese col concreto problema della fame, molte famiglie decidono di vendere i figli, a volte anche sinceramente sperando di dargli un futuro migliore. Ma qui, in questa storia, in Calabria, non c’è fame e non c’è povertà e, viene da chiedersi, se la tesi accusatoria venisse confermata, quale può essere la pena da infliggere a persone capaci di gesti simili.