Napolitano, i ministri Pdl, la fiducia. Tre stazioni della via crucis di Letta

di Riccardo Galli
Pubblicato il 27 Settembre 2013 - 14:18 OLTRE 6 MESI FA
Enrico Letta con Giorgio Napolitano (foto Lapresse)

Enrico Letta con Giorgio Napolitano (foto Lapresse)

ROMA – Da Napolitano, per reciprocamente comunicarsi cosa intendono fare se e dopo che il suo governo finisce, per dirsi che lui un “Letta-bis” se lo risparmierebbe e per sentirsi dire che il presidente non scioglie le camere se la conseguenza è andare alle elezioni ad appena un anno dall’ultimo voto e con la stessa pessima e suicida legge elettorale.

Poi a Palazzo Chigi, in serata, o domani sabato o anche domenica, appena si potrà: a Palazzo Chigi per guardare in faccia i ministri Pdl e chiedere loro se e a che titolo sono ancora ministri del governo. Ministri dopo aver firmato la carta di dimissioni dal Parlamento? A Palazzo Chigi a domandare ai ministrri Pdl quale sia la fedeltà che prediligono, quella alla Repubblica o quella a Berlusconi?

E infine a Montecitorio, alla Camera probabilmente martedì per chiedere il voto di fiducia: se c’è si va avanti e Berlusconi i cocci sono suoi. Se la fiducia non c’è, allora si va a casa. Non senza aver spiegato in Parlamento quanto ci rimette in moneta sonante ogni italiano e per colpa di chi, nome e cognome, si torna a pagare l’Imu, l’Iva aumentata e il costo dello spread che monta.

Sono le tre stazioni della via crucis di Enrico Letta e del suo governo. Come va a finire non lo sa nessuno, neanche Naplitano o Letta o Berlusconi. E questa è la prova provata, la “pistola fumante” del fatto che non è una crisi politica, è qualcosa di molto iù malato, non è una crisi di governo, è qualcosa di molto più ingovernabile.

Il primo appuntamento del premier Enrico Letta al rientro dagli Stati Uniti sarà quello con il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Primo e forse unico punto fermo di un’agenda in continua evoluzione e dagli esiti assolutamente imprevedibili. Dopo l’incontro col Capo dello Stato,  in programma un consiglio dei ministri a dir poco delicato, chiamato ad affrontare questioni come Iva, sforamento del rapporto deficit/Pil, Telecom, Ilva, finanziamento delle missioni all’estero e via dicendo. Si farà oggi il CdM? Forse, ma non è detto. Sicuramente andrà fatto prima di martedì, giorno in cui l’aumento dell’Iva diventerà effettivo e giorno in cui il premier ha già in programma di presentarsi in Parlamento per una verifica, per chiedere cioè la fiducia.

Cinque giorni, da oggi (venerdì 27) a martedì 1 ottobre, in cui il governo scoprirà praticamente ora per ora quale sarà il suo destino, e 5 giorni che terranno col fiato sospeso gli italiani. Sono infatti legati, ballano insieme a questi giorni, la bellezza di 9 miliardi di euro. Cosa accadrà e come andrà a finire, per ora, lo si può solo immaginare.

Quale sia la misura dell’incertezza che grava su governo e Paese la danno le dichiarazioni dei “dimissionari” parlamentari pidiellini, pronti ad annunciare per bocca di Gianfranco Rotondi che, prima del voto sulla decadenza di Silvio Berlusconi, sono pronti a votare la fiducia. Tesi, però, smentita da colleghi dell’ex ministro senza portafoglio. Smentita perché, in realtà, sono gli stessi uomini di Berlusconi a non avere la minima idea di quale sia la loro strategia futura. La decisione delle dimissioni di massa, improvvisa, inaspettata, irrealizzabile ma comunque dirompente, è stata calata come tutte le decisioni di casa Pdl dall’alto, dal “Re” si “vassalli”. E questi l’hanno più che condivisa in realtà subita e, come dimostrano le risposte contraddittorie e frequentemente illogiche che deputati e senatori del Pdl danno, non hanno nemmeno loro idea di quel che ora accadrà.

Dopo il faccia a faccia con Napolitano, il premier Letta dovrà comunicare se tenere oggi quel consiglio dei ministri originariamente in programma o se, come appare probabile, rimandarlo a domani. Nell’incertezza della data, appare invece certo che prima delle questioni delicatissime che il CdM aspetta, ci sarà all’interno di questo una sorta di verifica, o resa dei conti. Chiederà infatti Letta ai ministri del Pdl cosa vogliano fare, dimessi da parlamentari ma ancora ministri. Metterà quindi Angelino Alfano e gli altri di fronte alle loro responsabilità chiedendo una presa di posizione chiare e, spera Letta, in un senso o nell’altro definitiva. Già in questa fase la crisi potrebbe smettere di essere un’ipotesi, uno spauracchio e un’eterna arma di ricatto e divenire reale. Potrebbe, ma non è detto assolutamente.

Se l’esecutivo dovesse passare l’esame del CdM il successivo appuntamento sarebbe, anzi sarà, visto che è già in programma, quello di martedì a Montecitorio dove Letta si presenterà per sostanzialmente scoprire le carte. Chiedere cioè la fiducia, rivolto specialmente ai dimettendi parlamentari del Pdl snocciolando, contemporaneamente e di fronte al Paese quali sarebbero le conseguenze delle crisi.

Scrive Fabio Martini su La Stampa: “Il presidente del Consiglio ha intenzione di presentarsi (alla Camera), pronunciare un intervento, al termine del quale chiederà la verifica del rapporto fiduciario. Discorso che si preannuncia sofferto, per certi versi drammatico e probabilmente destinato a contenere anche l’esplicitazione del ‘prezzo’ di una eventuale crisi di governo: con la caduta dell’esecutivo si bloccherebbero tutti i decreti relativi alle imposte – quelli approvati, quello in attesa di approvazione, comunque tutti da convertire in legge – con un costo per gli italiani di circa 9 miliardi. Come dire: caro Berlusconi, non soltanto provochi la crisi ma rendi operative due tasse che dici di voler cancellare”.

In ballo infatti ci sono questioni molto concrete che il consiglio dei ministri avrebbe dovuto affrontare proprio oggi e che saranno rimandate probabilmente a domani e che, in caso di crisi, non saranno affrontate ma scaricate sugli italiani. Questioni che si chiamano aumento Iva, rifinanziamento delle missioni all’estero, copertura per la cancellazione dell’Imu che, se non viene trovata, comporta aumenti compensativi e automatici di altre imposte. E poi la questione Telecom, la procedura europea d’infrazione per l’Ilva, lo sforamento del rapporto deficit/Pil. Un pacchetto che, euro più euro meno, vale 9 miliardi. Miliardi che, in caso di crisi, saranno messi in conto ai contribuenti.