Bypass, femore, cesareo: lista segreta degli ospedali a maggior rischio

di Riccardo Galli
Pubblicato il 31 Ottobre 2011 - 14:28 OLTRE 6 MESI FA

foto Lapresse

ROMA – Un bypass coronarico? In Italia il rischio di morte è mediamente del due per cento. Ma ospedale che vai… In alcuni ospedali il rischio sale a quasi il dieci per cento, in altri è praticamente zero. Quali ospedali? C’è una lista ufficiale ma tenuta per ora più o meno segreta. Se fino ad oggi pensare che gli ospedali del sud fossero meno efficienti di quelli del nord era frutto in parte di pregiudizio e in parte figlio degli episodi di malasanità che affollano le cronache, ora c’è anche una pagella ministeriale che certifica questo stato di fatto. In alcuni centri di Piemonte o Lombardia si può essere operati di bypass con un rischio di mortalità sovrapponibile a zero, ad esempio, mentre in certi ospedali siciliani il rischio sfiora il 10%. Ma anche nell’ambito di una stessa Asl esistono situazioni in bianco e nero. La possibilità per una persona anziana di essere operata al femore entro 48 ore dal trauma (tempo considerato ottimale per ridurre le complicanze) oscillano tra il 2% in provincia di Frosinone e l’80% a Firenze e dintorni.

A fare la radiografia del nostro sistema ospedaliero è un’indagine pubblicata su Internet con lettura riservata agli addetti ai lavori. Studio immane del ministero della Salute realizzato da Agenas, l’agenzia per i servizi sanitari regionali diretta da Fulvio Moirano. Migliaia di dati frutto dell’analisi dell’attività di circa 1.475 strutture tra pubbliche, private e convenzionate. E i risultati mostrano la solita Italia a due facce con il centro nord in generale più efficiente del centro sud. Solo in generale però, perché esistono ospedali “cattivi” anche al nord, come ne esistono di “buoni” al sud.

Il lavoro fa parte del Programma nazionale esiti. L’edizione 2005-2009 è stata consegnata la scorsa estate alle Regioni e si sta riflettendo sull’opportunità di renderlo pubblico. L’analisi si basa sulle schede di dimissione ospedaliera, quelle che raccontano la storia di un ricovero e prendono in esame 47 indicatori corrispondenti ad altrettante prestazioni, dal bypass aortocoronarico alla colecistectomia laparoscopica, dall’ictus allo scompenso cardiaco, dall’infarto a interventi chirurgici non oncologici. Si tratta di attività accreditate dalla letteratura internazionale per diagnosticare l’efficienza dei servizi sanitari.

Uno degli “indicatori” presi in esame è il tasso di sopravvivenza alle operazioni di bypass. In Italia, mediamente, il tasso di mortalità a 30 giorni da una simile operazione, è del 2,2%. Ma, a fronte di questo dato, il tasso si schiaccia verso lo zero se ci si opera in strutture come il Santa Croce e Carle a Cuneo o il San Giovanni Battista a Torino, ma anche alla Casa di Cura Mediterraneo di Napoli. Mentre schizza al 5% al Sant’Andrea di Roma o all’Azienda Ospedaliera di Palermo. Nel 2009, ultimo anno a cui si riferiscono i dati presi in esame, circa 30 ospedali non hanno poi superato la soglia dei 50 bypass all’anno, mentre il volume considerato accettabile per la sicurezza del malato è di 200. Tra le eccellenze il Monzino di Milano, la Poliambulanza di Brescia, le Molinette a Torino. Al di sotto dell’1,5% il Sacco di Milano, gli ospedali Riuniti di Bergamo, il Careggi di Firenze, il San Camillo Forlanini di Roma (con 0,79%), l’Ismett di Palermo. La mortalità sale al sud, è superiore al 5% a Salerno, al Monaldi di Napoli, presso la casa di cura San Michele (Caserta, quasi 8%), al Papardo di Messina ma anche in alcune grandi aziende universitarie romane.

Altro indicatore “caldo”, la possibilità di essere operati velocemente al femore in caso di frattura. Tempo fattore importante poiché essere operati entro 48 ore dalla frattura riduce drasticamente il rischio di complicazioni. Opportunità negata in decine di ospedali del sud dove appena 5 pazienti su 100 vengono operati rispettando le linee guida internazionali. Ma anche a Milano (Niguarda, San Paolo) si scoprono ritardi sorprendenti che dipendono dall’organizzazione. A livello nazionale la media dei pazienti che vengono operati nelle 48 ore si attesta al 30%, in Inghilterra all’80%, ma, anche in questo caso prima di rompersi il femore converebbe riflettere su dove ci si trova.

Infine i parti cesarei, parti che sembrano essere diventati spesso indispensabili nei nostri reparti maternità. E qui la forbice è davvero ampia. Si va dalle percentuali virtuose del Buzzi (Milano), ospedali Riuniti (Bergamo), casa di cura per il Bambino (Monza) dove meno di 10 donne su 100 partoriscono con la chirurgia. A realtà del sud che potrebbero essere definite vere e proprie fabbriche di cesarei. Case di cura private dove 8 donne su 10 ricevono il taglio probabilmente senza criteri di appropriatezza, solo perché vantaggioso sul piano della remunerazione. La Campania si distingue con percentuali decisamente straordinarie, in negativo. Ci sono però esempi estremi anche in Piemonte. Presso la clinica Sedes Sapientiae il cesareo è scontato (9 volte su 10).

Una classifica imbarazzante a questo punto per il ministero che non sa se renderla pubblica, e come, o meno. L’idea di fondo di una simile indagine è quella di funzionare come rilevatore di malfunzionamenti e strumento di correzione. Per ora ha fatto sapere che un comune pensiero politicamente scorretto: sentirsi male a Reggio Calabria o Bolzano non è la stessa cosa, risponde, almeno in parte, alla verità. Che ci siano differenze tra un ospedale e un altro è un fatto fisiologico, ma in alcuni casi le differenze tra i nosocomi italiani sono troppo ampie e troppo localizzate. La salute è un diritto ma, se dovete farvi un bypass, meglio fare un salto a Milano.