Pensioni a 62 anni. Renzi: ciao Fornero con 30 euro in meno. No, col 30% meno!

di Riccardo Galli
Pubblicato il 20 Maggio 2015 - 13:03 OLTRE 6 MESI FA
Il selfie di Renzi a Porta a Porta

Il selfie di Renzi a Porta a Porta

ROMA – “Nella legge di stabilità stiamo studiando un meccanismo non per cancellare la Fornero ma per dare della libertà in più se accetti di prendere un po’ meno, quei 30 euro”. Il premier Matteo Renzi ha spiegato così, nel salotto che ormai gli è familiare di Porta a Porta, la sua idea di riforma delle pensioni. Qui ha riproposto l’apologo previdenziale della nonna di 62 anni che deve poter preferire di accudire ai nipotini rimettendoci qualcosa sull’assegno ma potendo andare in pensione. Appunto, quei 30 euro. Ma Renzi deve essere stato vittima di autosuggestione perché, a conti fatti, per rendere fattibile l’idea del ‘in pensione prima ma con assegno più magro’, non saranno “quei 30 euro” ad essere persi, ma andrà tagliato dal 25 al 30% dell’assegno. Una bella differenza.

Differenza che deriva non dalla cattiveria dei governi o dai complotti del destino cinico e baro. Differenza che è nei numeri. Se si va in pensione a 61 o 62 anni (oggi l’età richiesta è 66 abbondanti) si versano contributi per             quattro/cinque anni in meno e si resta in pensione per altrettanti anni in più. Questo non lo ripaghi e ripiani con 30 euro in meno al mese di pensione e neanche con 50 di meno al mese. Tutti i calcoli, approssimati ma non approssimativi, stimano che per tornare a mandare in pensione la gente prima, per fare ciao alla legge Fornero senza dover ricorrere a tasse nuove per pagare la previdenza com’era prima della Fornero, l’assegno pensionistico che si comincia a incassare a 61/62 anni dovrebbe essere tagliato del 25/30%. Solo così i conti tornano, altrimenti inesorabilmente sballano.

Il premier è tornato martedì sera nella trasmissione condotta da Bruno Vespa ad affrontare il tema pensioni e rilanciare la sua idea che lui stesso definisce definisce “flessibilità”, facendo correre un brivido lungo la schiena dei precari di oggi che la flessibilità l’hanno conosciuta applicata al mondo del lavoro. “L’impegno del governo è chiaro – ha spiegato Renzi – ed è: liberiamo dalla Fornero quella parte di popolazione che accettando una piccola riduzione può andare in pensione con un po’ più di flessibilità. L’Inps deve dare a tutti la libertà di scelta”.

L’idea, così esposta, è ovviamente piena di buon senso: consentire a chi vuole di andare in pensione prima pagandosi, di fatto, da solo il costo dell’operazione con il taglio dell’assegno. Ma non è così semplice, da un punto di vista dei costi in primis e da un altro politico in secundis. E partiamo proprio dall’aspetto “politico”. Assodato che la riforma Fornero ha scontentato tutti o quasi, facendosi bocciare parte dell’impianto dalla Corte Costituzionale e creando gli esodati, va anche riconosciuto che ha reso sostenibile il sistema pensionistico italiano ed i suoi conti. E non lo ha reso sostenibile agli occhi dell’Europa di cui potremmo anche decidere di non voler sentire il giudizio, ma lo ha reso sostenibile agli occhi dell’aritmetica secondo cui, senza riforma, non ci sarebbero stati i soldi per pagarle, le pensioni. Aprire una breccia, per quanto piccola, nell’impianto che impone come età pensionabile i 66 anni rischia, oggettivamente e conoscendo il nostro Paese, di essere il primo passo verso una risma di eccezioni alla legge che, alla fine, la legge stravolgono. E con lei i conti.

Volendo però sperare che così non sarà, veniamo ai prosaici conti. “In caso di uscita a 62 anni invece che a 66 – spiegano all’Inps e racconta Alessandro Barbera su La Stampa – il signor Bianchi verrebbe ridursi l’assegno di circa il 20-30%. Il numero è frutto di una complessa operazione in cui, alla penalizzazione prevista per la parte di pensione calcolata con il contributivo, se ne somma una parte (per almeno il 12 per cento) sulla quota di assegno retributivo. Non è chiaro se l’ipotesi prevederà un minimo di contribuzione per l’uscita, ma le indiscrezioni dicono che potrebbe essere concessa anche a 60 anni”.

Altro che “quei 30 euro” chiamati in causa dal premier, di ben altre cifre si tratta. L’ipotesi avanzata da Pierpaolo Baretta e Cesare Damiano, 2% di penalizzazione per ogni anno di anticipo sull’uscita, che farebbe “quei 30 euro” su una pensione da duemila presa con un anno d’anticipo, non sarebbe infatti insostenibile costando tra i 3 i 4 miliardi annui. Qualcuno, leggi il presidente dell’Inps Tito Boeri, ha pensato di scaricare il costo sulle pensioni più ricche, chiedendo un nuovo “contributo di solidarietà”, cioè una nuova tassa. Nonostante il prestigio di Boeri l’idea, sposata anche dal consigliere economico di palazzo Chigi Yoram Gutgeld, sarebbe a fortissimo rischio incostituzionalità e nuova bocciatura, con annessa figuraccia per il governo che l’ha varata.

E allora, visto che la matematica non è un’opinione, anche se la politica ogni tanto prova a farlo credere, per applicare la flessibilità alle pensioni toccherà farla pagare, in misura consistente, ai pensionati che la vogliono. Un principio condivisibile rischia così di diventare un privilegio: chi ha pensioni sostanziose potrà, volendo, rinunciare ad una fetta in cambio di qualche anno di ‘libertà’, chi aspetta con ansia una pensione da 1000/1500 euro dovrà aspettare i 66 anni perché non potrà permettersi scelta.