Renzi non riconosce i suoi errori, non ha un progetto credibile: dietro le slides niente

di Salvatore Sfrecola
Pubblicato il 17 Gennaio 2017 - 06:24 OLTRE 6 MESI FA
Renzi non riconosce i suoi errori, non ha un progetto credibile: dietro le slides niente

Renzi non riconosce i suoi errori, non ha un progetto credibile: dietro le slides niente

Matteo Renzi non riconosce i suoi errori, non ha un progetto credibile: ovvero dietro le slides niente, conclude Salvatore Sfrecola, in questo articolo, pubblicato anche sul suo blog, “Un sogno italiano”.

La Repubblica di oggi, un titolo roboante in prima pagina “Io, la sinistra e i miei errori, così cambierò il partito”, una cocente delusione nelle due pagine interne dove, incalzato da Ezio Mauro, tuttavia Matteo Renzi non riconosce i propri errori e non prospetta un credibile progetto per il partito ed il governo. La dice lunga quell’“Io” ricorrente in tutta l’intervista, nonostante gli fosse stato detto da tutti che la sovraesposizione mediatica, fin dalla presentazione del programma di governo alle Camere, lo avrebbe danneggiato. Soprattutto perché agli annunci non ha quasi mai fatto seguito un effetto percepibile ed apprezzabile dall’opinione pubblica.

È vero, afferma che l’esito del referendum del 4 dicembre “umanamente è una grande lezione, come tutte le sconfitte”. Una lezione che, comunque, sembra non aver capito se si rivolge a Mauro aggiungendo: “sa cosa mi spiace soprattutto? Non essere riuscito a far capire quanto fosse importante per l’Italia questa riforma”. Eppure non c’è stato giorno che, lungo molti mesi, non apparisse in televisione, spesso “a reti unificate” verrebbe da dire tanto era contestualmente presente su più trasmissioni o telegiornali, per dire dei risparmi, del taglio dei posti e dei costi della politica, dell’accelerazione delle procedure legislative abolendo il bicameralismo paritario “che abbiamo solo noi in occidente” con il Parlamento più numeroso del mondo.

Ed è stato inutile replicare chiedendo che spiegasse perché lasciava 630 deputati, contro i 435 degli Stati Uniti d’America, che hanno oltre 381 milioni di abitanti, tagliava solamente i senatori non più eletti dal popolo ma dalle consorterie politiche locali, le più invischiate nel malgoverno. Inutile richiamare il documento della Ragioneria Generale dello Stato che indicava in circa 50 milioni i minori costi. Per Renzi e la Boschi, l’incauta e arrogante “riformatrice” contro il parere dei “professoroni”, i risparmi erano 500.

Come se gli zeri non contassero. Né mai il premier ed i suoi collaboratori hanno accettato un confronto sui tempi effettivi della legislazione, desunti dall’esperienza anche del suo governo, dai quali si ricava che le leggi, se c’è accordo, possono venire approvate anche in pochi giorni. Inutile ricordargli che questa è la regola della democrazia: le leggi si approvano quando c’è consenso. In assenza restano in archivio alla Camera o al Senato.

Insomma c’era poco da “far capire “ agli italiani di questa revisione della Carta fondamentale abborracciata con evidente disprezzo per le regole della democrazia in uno stato di diritto dove la Costituzione si approva a larghissima maggioranza, come nel 1947 quando, in Assemblea costituente, partiti che si scannavano sulle piazze, dai cattolici ai comunisti, dai repubblicani ai monarchici, approvarono praticamente all’unanimità la legge delle regole costituzionali che sarebbe entrata in vigore il 1° gennaio 1948.

Questa frettolosità animata da pressappochismo ha convito gli italiani che sarebbe stato bene respingere l’ipotesi riformatrice. Forse anche perché l’ossessiva campagna mediatica della quale Matteo Renzi si è fatto promotore li ha disturbati e predisposti al NO. Un po’ come era avvenuto in occasione del referendum sul finanziamento dei partiti, quando Craxi invitò gli italiani ad andare al mare disertando le urne. Andarono tutti a votare. Ed anche il 4 dicembre grande e imprevista è stata la partecipazione al voto.

Ed è stato un voto contro Renzi anche se, alla vigilia dell’appuntamento elettorale, Crozza, con uno straordinario monologo, aveva concluso che gli italiani si dividevano in due categorie, “quelli che votano SI e quelli che la riforma l’hanno letta”. Non c’è stato bisogno di leggerla per molti che evidentemente hanno dedotto dalla politica del governo che quel Presidente del Consiglio non era affidabile, che le sue promesse e previsioni erano destituite di fondamento. Perché chi dice ad un compagno di partito “sta sereno” mentre sfodera il ferro per pugnalarlo non è credibile anche quando dice di voler migliorare l’assetto costituzionale.

Renzi non ha capito cos’è accaduto il 4 dicembre ed ancora fantastica su quei 13 milioni di voti raccolti dal SI. Li considera “un patrimonio di speranza per il futuro”, voti suoi quel 41% sul quale continua a far conto come se fosse effetto di una scelta per la persona, trascurando che lì c’è una congerie, meglio, per usare il suo linguaggio, un’“accozzaglia” variamente assortita. Dove pochi hanno condiviso la riforma, magari soltanto “per iniziare a fare qualcosa”, ed altri si sono sentiti vincolati alle scelte del leader per disciplina di partito e per non far prevalere l’odiato Centrodestra composito da leghisti, fratelli d’Italia e frange forziste.

Come fa, dunque, Renzi a sostenere, in risposta a Mauro che gli chiedeva quale fosse il suo errore “più grave”, che è stato quello di “non aver colto il valore politico del referendum”? Forse che non leggeva i giornali, non ascoltava le trasmissioni televisive di approfondimento?

Azzardo. L’errore più grave del leader del Partito Democratico è stato quello di aver strozzato il dibattito nel suo partito, eliminato dalle posizioni di responsabilità parlamentare i contrari alla riforma, creato, in sostanza, un clima di intolleranza alle critiche che non ha fatto emergere il dissenso. È come accade sempre, dove manca la democrazia, i capi si circondano di yes men, dai quali desiderano sentirsi dire “come sei bravo”.

Un errore che altri nella storia hanno pagato. Personaggi incapaci di circondarsi di collaboratori con forte personalità che all’occorrenza fossero capaci di dire no. Quel no che è sempre espressione di amicizia autentica sulla quale un leader degno del ruolo dovrebbe sempre fare affidamento. E richiedere a coloro dei quali ha fiducia politica e professionale. Se, invece, si scelgono i collaboratori politici per posti di responsabilità tra persone della modestia che abbiamo potuto constatare in ben tre anni di governo vuol dire che quel leader non è all’altezza del ruolo. La storia, infatti, insegna che grandi uomini di stato si sono sempre circondati, nei ruoli amministrativi e diplomatici, di collaboratori di valore non temendo di essere scavalcati o condizionati.

Renzi, invece, difende chi ha messo la faccia su riforme assurde, bocciate dai cittadini (Boschi) e dalla Consulta (Madia). Evidentemente non ha compreso. Come non ha chiare le idee in materia di partito che immagina liberato “dai vincoli delle correnti” così facendo chiaramente intendere che non vuol consentire un dibattito interno. Ma forse a lui non sarà consentito di comprimere il dibattito delle idee in un partito che è necessariamente espressione di vari orientamenti che, del resto, esistevano anche quando si chiamava Partito Comunista Italiano, anche se in una dialettica contenuta.

Due paginone per dire poco o niente che già non si sapesse. Con risposte del tono che conosciamo, con le battutine alle quali ci aveva abituato e che gli italiani hanno dimostrato di non gradire. Dietro le slides niente, si potrebbe dire. Per concludere con l’ennesimo slogan vuoto “meno slide, più cuore”. E siamo tutti contenti. Come si dice a Firenze.