8 settembre 1943: non fu colpa del re ma dei generali

di Salvatore Sfrecola
Pubblicato il 20 Settembre 2012 - 07:52 OLTRE 6 MESI FA

Una tesi controcorrente è esposta da Salvatore Sfrecola sull‘8 settembre 1943 e sulla fuga del re, della quale dà una diversa spiegazione, opposta alla convinzione dei più.

Sfrecola ribalta la tesi prevalente,

secondo il quale, il trasferimento di Re Vittorio Emanuele III da Roma a Pescara, per raggiungere poi Brindisi, territorio libero dai tedeschi e senza presenza delle truppe alleate, sarebbe stata una fuga.

Ritengo che la figura del Re, che certamente ha compiuto alcuni errori nel suo lungo Regno, ad esempio la firma delle leggi razziali alle quali notoriamente era contrario, costituisca una specie di alibi per fascisti ed antifascisti a giustificazione dei loro errori nel corso del ventennio, fin dalla sua vigilia.

È proprio nella tensione sociale e nelle violenze che hanno preceduto per lunghi mesi la cosiddetta “marcia su Roma” che il Sovrano, il quale più volte aveva sostenuto che i suoi occhi e le sue orecchie di Capo di Stato costituzionale erano la Camera ed il Senato, aveva interpellato le forze politiche presenti in Parlamento alla ricerca di una soluzione che desse vita ad un governo, che oggi definiremmo di unità nazionale, per superare la crisi economica gravissima del dopoguerra e le conseguenti tensioni sociali sfociate in violenze in giro per l’Italia, soprattutto nel nord del Paese.

Le cronache ed i libri di storia riferiscono che Vittorio Emanuele interpellò ripetutamente i massimi esponenti dei partiti, dai popolari di Luigi Sturzo, ai socialisti di Filippo Turati, passando per i liberali di Giovanni Giolitti, autorevole ancorché anziano.

Tutti si fecero indietro. Nessuno ebbe il coraggio di affrontare la bufera. D’altra parte non si intravide un “Monti” ante litteram che, forte di una autorità scientifica, fosse legittimato ad adottare misure severe, necessarie per ristabilire l’ordine pubblico in una condizione di ripresa dell’economia dissestata dalla guerra.

In queste condizioni di assenza totale della politica, il Grillo della situazione, forte di un consenso strisciante della borghesia che più di altre classi sociali aveva subito le conseguenze del conflitto, nel quale pure si era impegnata, non ci furono altre soluzioni che l’incarico a Benito Mussolini, una modesta presenza alla Camera, al quale sarebbe stata concessa la più ampia fiducia, come attestano le dichiarazioni di autorevoli esponenti dei partiti democratici, come Giovanni Gronchi.

Di fatto i partiti, che poi si qualificheranno antifascisti, diedero via libera al Governo Mussolini e al regime autoritario, al punto da consentirgli di manomettere lo Statuto Albertino, fino a prevedere che la stessa successione al trono dovesse ricevere l’assenso del Gran Consiglio. Una lesione delle prerogative della Corona che Mussolini poté compiere quando fu evidente che il consenso nei confronti del regime, che di meriti in campo sociale comunque ne aveva conquistati, anche per aver aperto a masse di diseredati le pianure laziali e libiche, gli consentiva di sfidare l’autorità del Re. Il quale congedò il Cavaliere (una qualifica ricorrente nella storia d’Italia!) messo in minoranza proprio dal quel Gran Consiglio con il quale riteneva di governare il sistema costituzionale, sfiduciato nella direzione delle operazioni militari, con conseguente restituzione al Sovrano del Comando supremo delle Forze Armate.

Eppure Vittorio Emanuele è stato, a mio giudizio un po’ incautamente, accusato di aver addirittura compiuto un colpo di stato nell’accettare le dimissioni del Duce, in assenza di un voto parlamentare. È la tesi, ad esempio, di un giurista di sinistra come Paolo Barile. Eppure quella decisione del Re, che fece gioire tutti gli antifascisti, fu assunta da Vittorio Emanuele nella assoluta autonomia del suo ruolo statutario.

E qui si innesca la polemica sull’8 settembre, sull’esercito lasciato senza ordini in balia dei tedeschi. Ed io mi sono sempre chiesto quali ordini dovessero avere le supreme autorità militari dopo il comunicato del Maresciallo Badoglio che non faceva in nessun modo intendere che dovessero andare “tutti a casa”, come titola un noto film. Forse che un comandate di armata, responsabile di decine di migliaia di uomini ha bisogno di ordini per garantire il controllo del territorio in nome del Governo del Re?

Il fatto è che l’8 settembre ha dimostrato l’assoluta inadeguatezza di buona parte della dirigenza militare, quella che sul Carso mandava allo sbaraglio migliaia di soldati, ammassati contro i reticolati e falciati inevitabilmente dalla mitraglia. Quella classe militare che credeva di combattere ancora una guerra stile ‘800, con assalto alla baionetta, quella classe militare che non aveva fatto presente in modo ultimativo al Re ed al Duce l’assoluta inadeguatezza delle nostre Forze Armate, quanto ad armamento (i fucili 91, cioè modello 1891) ed addestramento in una guerra nella quale andavamo a confrontarci con paesi, come la Francia ed il Regno Unito, dotati di soldati addestrati nelle guerre coloniali permanenti.

In queste condizioni, assenti altre autorità dello Stato, senza Governo e senza Parlamento l’unica autorità istituzionale, con specifico compito di guida delle Forze Armate, era il Re. Si sarebbe dovuto far catturare dai tedeschi? Con quali effetti positivi sull’andamento della guerra e sulla gestione dell’armistizio? Nessuno, assolutamente nessuno. Anzi, con la conseguenza di lasciare il Paese, già prostrato dai lutti e dalle distruzioni, assolutamente allo sbando, senza nessuno che potesse, anche nei confronti dei nuovi alleati, parlare in nome dell’Italia, in una situazione politica particolarmente difficile, per la diffidenza nutrita nei nostri confronti soprattutto degli americani.

La partenza da Roma per Pescara e poi per Brindisi non è, dunque, per un Re che aveva vissuto in prima linea la guerra 1915 – 1918, un gesto di paura. È facile, dunque, immaginare l’angoscia di questo Sovrano, che era salito sul trono all’indomani dell’assassinio del padre, impegnandosi a favorire la pace sociale e lo sviluppo economico che avrebbe caratterizzato il primo decennio del ‘900 sotto la guida sapiente di Antonio Giolitti, vedere la conclusione del suo Regno nelle tristi giornate della sconfitta, militare e politica, dl Paese che tanto ha dimostrato di aver amato, mentre una delle sue figliole, Mafalda, soffriva umiliazioni e angherie, fino a morire in un campo di concentramento tedesco dove si prestava generosamente ad alleviare quelle degli altri.

No, Vittorio Emanuele III, che la storia riterrà certamente colpevole di aver firmato le infami leggi razziali, non deve vergognarsi per essersi trasferito a Brindisi, perché quello era il suo dovere di capo di uno Stato allo sbando, soprattutto nella componente militare, quella di cui dopo il 25 luglio aveva riassunto la guida. Infatti, è stato più volte ricordato, che quell’8 settembre, mentre i comandanti militari dismettevano l’uniforme per darsi alla fuga (i più coraggiosi e fedeli al giuramento al Re per continuare a combattere i tedeschi alla macchia nella Resistenza), gli impiegati civili puntualmente si presentavano all’ingresso degli uffici, alle 8 di mattina.

Il fatto è che il soldato italiano, che ha sempre dimostrato spirito di sacrificio, capace di atti di eroismo e di gesti di grande umanità, ha spesso avuto comandanti non all’altezza del compito, come hanno dimostrato anche le guerre del Risorgimento, ove vinte per l’intervento dell’esercito francese ove dai volontari di Giuseppe Garibaldi, come a Bezzecca, a riscattare l’onore delle armi, perduto a Novara o a Lissa.

La storia certamente riconoscerà l’obiettiva difficoltà di un Regno nel quale, accanto al Sovrano, è mancata una classe politica adeguata ai tempi e capace di osare nel nome delle libertà statutarie per affiancare il capo dello Stato nella gestione di un Paese dagli antichi squilibri economici e sociali, fonte di grave malcontento, allora come oggi.