Corte dei Conti spolpata non va lontano, se mancano…

di Salvatore Sfrecola
Pubblicato il 30 Marzo 2016 - 08:55 OLTRE 6 MESI FA
Corte dei Conti spolpata non va lontano, se mancano...

Corte dei Conti spolpata non va lontano, se mancano…

ROMA – Corte dei Conti: deve controllare come sono spesi i soldi pubblici, avendo a disposizione, oggi, il 40 per cento in meno delle forze di 50 anni fa. Salvatore Sfrecola, magistrato della Corte dei Conti, mette in guardia contro le facili ricette di revisori privati in questo articolo che è stato pubblicato anche sul suo blog, Un Sogno Italiano”.

Se non funziona l’apparato c’è poco da fare, le politiche pubbliche rimangono sulla carta, un bel libro di sogni. Non a caso Cavour amava dire “datemi un bilancio ben fatto e vi dirò come un Paese è governato”. Dove “ben fatto” significa veritiero ed idoneo ad identificare dove e come le risorse sono impiegate. Un riferimento al consuntivo, al rendiconto generale dello Stato, laddove nel conto del patrimonio sono iscritti l’ammontare del debito, i crediti e le partecipazioni, i dati della gestione di tesoreria.

Quella lettura è impegno di pochi in politica, come evidente dall’andamento dei dibattiti parlamentari, e, spesso, dalle riflessioni degli studiosi.

Quelle carte uno dei pochi a averle lette è Alessandro Penati le ha lette e su di esse ha meditato a tutto tondo. E in lui deve essere montata la rabbia per aver constatato come da quel documento, specchio fedele della salus rei pubblicae, emerge un Paese in affanno, che non cresce e che ha poche speranze di sviluppare benessere e occupazione.

L’analisi che Alessandro Penati ha scritto per Repubblica è spietata, per certi versi irrimediabilmente pessimista, se, di fronte a “sperpero e corruzione”, da anni “regolarmente documentati da inchieste giornalistiche, libri e programmi Tv”, la denuncia “non genera idee e proposte efficaci”. Né in politica, né in sede giudiziaria. E neppure nell’Amministrazione che non si riforma perché “il problema del suo malfunzionamento è endemico e irrisolvibile”, ma si aggiungono nuove funzioni e nuovi enti “senza alcuna garanzia che la nuova burocrazia funzioni meglio di quella surrogata”. Intanto leggi e regolamenti, spesso “incomprensibili (volutamente?) per i non “addetti ai lavori”, come in materia di appalti, scoraggiano gli imprenditori e gli investitori.

Ne ha per tutti Penati, anche per le università, che accusa di essere non responsabili delle scelte sbagliate che “non seguono criteri squisitamente meritocratici”. “Un problema intrinseco al pubblico: chi decide lo fa coi soldi degli altri, e non c’è relazione tra le sue prospettive di reddito e carriera e il valore della sua decisione”.

Di fronte a questa situazione “non esistono soluzioni facili, ma bisogna cercarle in cambiamenti radicali del “manico””. Secondo Penati per superare questa situazione quattro sono le indicazioni concrete. In primo luogo responsabilizzare regioni e comuni, per i quali non è stato imposto di assumersi la responsabilità della spesa. Per cui “o si decentra anche il potere impositivo o si riportano al centro funzioni e decisioni di spesa”. È il tema del federalismo.

Poi privatizzare il possibile. “Il privato non è esente da problemi; ma per lo Stato è più facile regolamentare che gestire direttamente. Per quanto criticabile sia il sistema tariffario, è meglio delegare costruzione e manutenzione delle strade a concessionari che farle gestire dall’Anas. Privati regolamentati sono più efficienti nel gestire poste, ferrovie, lotterie, tabacchi, elettricità rispetto a enti pubblici in monopolio”.

La terza indicazione è quella di “separare la decisione di investimento, che appartiene all’area pubblica, dall’intero processo esecutivo: progettazione, selezione di imprese e fornitori, gestione dei contratti, controllo avanzamento lavori e standard di qualità, “per questo ci sono società specializzate nel mondo”.

Infine, la proposta di “istituire un revisore contabile della spesa, indipendente dal Governo. Non l’ennesima Autorità o magistrato, ma un vero revisore dei conti pubblici che certifica la regolarità delle poste di bilancio e verifica il rispetto delle regole contabili e contrattuali da parte di tutte le amministrazioni pubbliche. Per gli eventuali errori, irregolarità o illeciti c’è la giustizia ordinaria”. Con l’aggiunta che “la Corte dei Conti andrebbe soppressa per manifesta inutilità. Tribunali amministrativi, radicalmente riformati. Dovrebbe essere il primo capitolo della prossima spending review”.

Sarebbe difficile non essere d’accordo con Penati, quanto all’analisi delle cose che non vanno nella legislazione e nell’amministrazione pubblica, temi che spesso tratto e che mi appassionano, convinto, come ho detto, che l’amministrazione pubblica efficiente sia al centro del buon funzionamento dell’istituzione governo. E sembra opportuno approfondire, per capire il senso di un articolo e la sua efficacia nel dibattito politico, il riferimento finale alla “inutilità” della Corte dei conti, un verdetto buttato lì senza motivazione, a meno che non si intenda attribuire alla Corte la responsabilità dello sfacelo che sino a qualche riga prima è stato denunciato con evidenti responsabilità diffuse, a partire dal “manico”, che va identificato innanzitutto, e senza mezzi termini, nella classe politica, a cominciare da quella che si siede in Parlamento, là dove si fanno le leggi che amministrazione e magistrature applicano. Con la conseguenza che quel fiducioso riferimento alla giustizia ordinaria appare quanto meno azzardato in considerazione della, a tutti nota, difficoltà di perseguire i reati e di assicurare la giustizia civile in tempi rapidi, una doglianza antica, denunciata innanzitutto dai magistrati.

Ma tornando alla Corte dei conti, che Penati vorrebbe sostituita da un “revisore contabile della spesa pubblica, indipendente dal Governo”, senza tener conto che in tutte le autorità, definite nella denominazione “indipendenti”, i componenti li nomina il governo o il Parlamento, quindi la politica, voglio ricordare una mia esperienza dei primi anni 90, quando fui incaricato dal Ministro dei lavori pubblici pro-tempore di esaminare i documenti con i quali erano stati certificati i bilanci delle Ferrovie Nord di Milano che ne avevano attestato la regolarità. Tuttavia gran parte dei vertici aziendali erano inquisiti. Alcuni associati alle patrie galere.

Delude, dunque, sul punto l’articolo di Alessandro Penati del quale non intendo comunque sminuire la capacità di analisi già in altre occasioni condivisa. Ritengo tuttavia che onestà di analisi scientifica richieda l’approfondimento della presunta inutilità di una istituzione che dal 1300 ha garantito lungo i secoli, e nella evoluzione del sistema di governo, prima la corretta gestione degli uffici operanti nell’ambito della curia regis del Re di Francia, poi del Ducato di Savoia, quindi del Regno d’Italia e della Repubblica, sempre in uggia ai potenti di turno.

Un’analisi di questo ruolo di garanzia, se non altro per rispetto alla storia ed alle persone, avrebbe dovuto comportare qualche considerazione sulle leggi che l’istituzione regge e su quelle che applicano i controllati, senza trascurare il problema dell’adeguatezza degli strumenti operativi e del personale, di magistratura e amministrativo, che opera al centro e nelle regioni.

Uno sparuto numero di magistrati, che soffre una scopertura del ruolo vicina al 40%, numeri che furono determinati oltre 50 anni fa, mentre nel frattempo la spesa pubblica è aumentata e si è diversificata e in alcuni casi è stata gestita in deroga alle disposizioni della legge di contabilità e della normativa sugli appalti. E non solamente nel settore della protezione civile, in un Paese nel quale la regola è quella di rinviare la soluzione dei problemi perché divengano un’emergenza da affrontare con misure speciali.

Avrei voluto sentire da Penati, ad esempio, qualcosa sui controlli in materia di opere pubbliche, sui collaudi, in particolare, che, come nel caso delle certificazioni di bilancio dianzi richiamate, attestano sempre la corretta esecuzione dei lavori secondo le disposizioni contrattuali e le regole dell’arte, anche quando quelle opere, realizzate con ritardi spesso di anni, richiedono presto interventi manutentivi straordinari.

La conclusione non può essere altra che un invito ad approfondire i singoli temi al di là di una generica e generalizzata critica dell’esistente che effettivamente “non genera idee e proposte efficaci”, per dirla con le parole di Penati. Mentre è estremamente pericoloso, in un momento storico nel quale il dire spesso fa aggio sul fare, gettare in pasto all’opinione pubblica sentenze non motivate le quali possono lasciare in orecchie inesperte ma velleitarie giudizi errati e comunque ingenerosi, tali da indurre a rammendare la tela partendo dal filo sbagliato. Non ce lo possiamo permettere.