Ius soli, le ragioni del no: questo Parlamento non può e già la legge prevede…

di Salvatore Sfrecola
Pubblicato il 29 Settembre 2017 - 06:08 OLTRE 6 MESI FA
Ius soli, le ragioni del no: questo Parlamento non può e già la legge prevede...

Ius soli, le ragioni del no: questo Parlamento non può e già la legge prevede…

ROMA – Il dibattito, in Parlamento e nel Paese, è vivacissimo e assai spesso ha assunto i toni di uno scontro sui valori fondanti della democrazia, quelli che costituiscono in qualche modo l’identità di uno Stato, come dimostra la levata di scudi di tutte le forze liberali nei confronti della pesante interferenza della CEI che, secondo notizia giornalistiche, avrebbe fatto pressioni sul Governo per un’approvazione della nuova legge sullo ius soli prima della fine dell’anno. E ciò perché il disegno di legge n. 2092, all’esame del Senato, recante “Modifiche alla legge 5 febbraio 1992, n. 91, e altre disposizioni in materia di cittadinanza”, divide profondamente, e non soltanto per motivi di merito.

C’è, infatti, in primo luogo, un tema di legittimità del Parlamento chiamato a decidere. Una questione di regole della democrazia parlamentare, anzi della democrazia tout court, che non può essere accantonato con un’alzata di spalle come si continua a fare dal 2014, da quando, cioè, con la sentenza n. 1 del 2014, la Corte costituzionale ha dichiarato in contrasto con la Carta fondamentale dello Stato la legge elettorale sulla base della quale deputati e senatori erano stati eletti nel 2013.

Il Parlamento avrebbe dovuto chiudere le porte il giorno dopo. Sennonché, per evitare la paralisi delle assemblee legislative, la Consulta ne ha riconosciuto la sopravvivenza, tuttavia entro limiti rigorosi, individuati nell’esercizio degli affari di ordinaria amministrazione. Lo ha fatto richiamando due norme costituzionali assolutamente chiare, l’art. 61, comma 2, secondo il quale, in caso di nuove elezioni, “finché non siano riunite le nuove Camere sono prorogati i poteri delle precedenti”, e l’art. 77, comma 2, il quale prevede che, in caso il Governo adotti “provvedimenti provvisori con forza di legge” (decreti legge), questi devono essere presentati per la conversione “alle Camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni”.

Una indicazione inequivocabile, il Parlamento può fare poche cose, in primo luogo la nuova legge elettorale per tornare a votare. Sennonché, la maggioranza, con l’avallo del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che, in ragione del suo ruolo “di controllo e di garanzia costituzionale”, ai sensi dell’art. 87 della Costituzione, avrebbe dovuto presidiare il rispetto della sentenza della Corte costituzionale, ha continuato, come nulla fosse avvenuto, a fare leggi. Ha approvato una riforma costituzionale bocciata dagli elettori nel referendum del 4 dicembre 2016, ha approvato, a colpi di mozioni di fiducia, una nuova legge elettorale, l’Italicum, dichiarato incostituzionale dalla Consulta.

Non contenti gli stessi partiti, incuranti delle regole e della volontà espressa degli elettori, si apprestano a modificare in fretta e furia, alla vigilia delle elezioni, la legge sulla cittadinanza, una normativa la quale attiene ad uno degli “elementi dello Stato”, come si esprimono i libri di diritto pubblico nel ripartire la materia, e minacciano di ricorrere ancora una volta al voto di fiducia, come se fosse una riforma essenziale alla realizzazione del programma del governo e non una questione propria del Parlamento. E questo a prescindere dalla sentenza del 2014!

È così che, attraverso la reiterazione incontrollata di comportamenti assunti in violazione delle regole elementari che riguardano il funzionamento delle istituzioni rappresentative, si mette in gioco una democrazia.

Nel merito, poi, va detto a chiare lettere che la disciplina della cittadinanza non è una legge qualunque, perché l’essere cittadino non è un fatto formale, burocratico, come si sente dire, ma il riconoscimento dell’appartenenza ad un contesto culturale, il che vuol dire a valori, in primo luogo a quelli indicati nella Costituzione: principi fondamentali, nei rapporti civili, economici e politici che fanno dell’Italia un Paese nel quale lo Stato “riconosce e garantisce i diritti inviolabili, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità” (art. 2), per cui tutti i cittadini “hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge” (art. 3), assicura la libertà dei culti (art. 8), la libertà personale (art. 13), del domicilio (art. 14), della corrispondenza (art. 16), di riunione (art. 17), di associazione (art. 18), di manifestazione del pensiero (art. 21) e via dicendo. Diritti, ma anche doveri, di cui uno “sacro”, come “la difesa della Patria” (art. 52), la fedeltà alla Costituzione e alle leggi (art. 54). Una somma di “regole della democrazia e della convivenza”, che identificano la storia e l’essere di un popolo che, pertanto, è tale e si qualifica come italiano. Quel popolo in nome del quale i giudici amministrano la Giustizia (art. 101, Cost.). La cittadinanza lo certifica, in Italia, come ovunque nel mondo. E se è naturale che il figlio di cittadini sia egli stesso cittadino ovunque nasca, chi non si trova in questa condizione, se desidera diventare cittadino italiano, deve chiederlo e dare dimostrazione di possedere i requisiti previsti dalla legge. La cittadinanza, in sostanza, consegue all’accertamento di una condizione che è innanzitutto morale, che presuppone la condivisione di valori civili e spirituali, quelli che individuano l’identità di un popolo come si è formata nella sua storia lungo i secoli, le sue tradizioni. Questo significa la Patria Italiana.

La legge vigente sulla cittadinanza è fondata essenzialmente sul cosiddetto ius sanguinis, nel senso che è italiano chi nasce da almeno un genitore italiano. Un criterio che, come ha scritto Fausto Cuocolo, “mira a garantire una maggiore coesione all’elemento popolo, il che rende questo criterio astrattamente preferibile”. Soprattutto “quando vuole salvaguardarsi l’omogeneità nazionale esistente”. Tuttavia un bambino nato sul territorio italiano da genitori stranieri può chiedere la cittadinanza al raggiungimento del diciottesimo anno, purché sino a quel momento abbia risieduto nel Paese “legalmente e ininterrottamente”. Una normativa senza dubbio ragionevole, equilibrata. Si chiede la cittadinanza al raggiungimento della maggiore età, consapevoli del senso di una scelta.

La proposta di modifiche all’esame del Senato prevede una semplificazione dei criteri di concessione della cittadinanza per i bambini, figli di genitori stranieri, nati o cresciuti in Italia. Infatti un bambino nato in Italia ne acquista la cittadinanza se uno dei genitori vi risiede legalmente da almeno 5 anni “o sia in possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo”. Altra ipotesi. “Il minore straniero nato in Italia o che vi ha fatto ingresso entro il compimento del dodicesimo anno di età che, ai sensi della normativa vigente, ha frequentato regolarmente, nel territorio nazionale, per almeno cinque anni, uno o più cicli presso istituti appartenenti al sistema nazionale di istruzione o percorsi di istruzione e formazione professionale triennale o quadriennale idonei al conseguimento di una qualifica professionale, acquista la cittadinanza italiana”. Dove è evidente che il frequentare corsi “idonei al conseguimento” non è la stessa cosa che “conseguire”. Norma che si presta ad evidenti aggiramenti, considerata la facilità con la quale si ottengono attestazioni compiacenti. Anche perché il disegno di legge, quando ha voluto, ha previsto come “necessaria la conclusione del corso” (di istruzione primaria) o “il conseguimento di una qualifica professionale” per lo straniero “che ha fatto ingresso nel territorio nazionale prima del compimento della maggiore età”.

Secondo le sinistre queste sono regole “di civiltà”. Sennonché si tratta all’evidenza di una legge “politica”, non nel senso nobile di una scelta destinata ad assolvere alle esigenze primarie della polis, ma di una legge a scopi elettorali, di basso interesse elettorale. Lo ha detto senza mezzi termini un osservatore qualificato come Antonio Padellaro intervenendo ad Otto e Mezzo, la trasmissione de La7 condotta da Lilly Gruber: “è una questione elettorale”. “Una legge – ha scritto su Il Messaggero Alessandro Campi, storico e politologo – che deriva non da un imperativo etico universale al quale si può solo obbedire, ma da una decisione politica frutto a sua volta di una ben definita visione della società e della storia. Chi la sostiene immagina un mondo nel quale le frontiere siano destinate un giorno a scomparire. Ritiene che gli uomini siano per definizione esseri nomadi e pendolari. Le appartenenze, statuali o nazionali, a loro volta sono viste come qualcosa di fittizio e convenzionale. Mentre la cittadinanza è considerata solo come uno status legale-formale che nulla può avere a che fare con legami in senso lato familistici o naturali, o che siano basati su una qualche forma di discendenza, anche solo di tipo storico-culturale”.

Siamo di fronte evidentemente a due contrapposte concezioni dello Stato e della società.

Ma non è tutto qui. Occorre, infatti, valutare gli effetti della normativa che si vorrebbe approvare anche alla luce di una situazione che non è di normalità, ma di emergenza legata ai continui sbarchi sulle nostre coste di clandestini e di profughi, un’ondata migratoria mai vista, perché organizzata. Non profughi che a gruppi di qualche decina fuggono dal loro paese a causa di una guerra o di difficili condizioni economiche, come nel caso di carestie, ma gruppi di centinaia e migliaia, reclutati, trasportati via terra, alloggiati in attesa dell’imbarco, d’intesa spesso con organizzazioni malavitose alcune delle quali li attendono per farne schiavi nelle campagne meridionali o per avviare le donne alla prostituzione. Organizzazioni che ricattano i familiari rimasti in patria. Una forma moderna di tratta degli schiavi. Un tempo i mercanti di uomini razziavano con violenza giovani soprattutto nei villaggi dell’Africa atlantica, oggi li “convincono” a spendere tutte le risorse della famiglia, migliaia di euro o dollari (ma dove li avranno mai se con quelle somme si possono avviare proficuamente attività produttive?) per finire nei ghetti, nelle periferie delle grandi città o nelle campagne.

Ecco perché la proposta scalda gli animi.

 

 

A proposito dell’ingerenza della Chiesa, merita rileggere l’articolo di Repubblica intitolato: Intesa governo-Vaticano: “Sì allo sius soli entro l’anno”. Le due parti avrebbero, dunque, concordato di mandare avanti la riforma della legge sulla cittadinanza. Ed io mi chiedo, al di là della singolarità della individuazione delle parti di un accordo evidentemente diseguale dal momento che governo è scritto con la “g” minuscola e Vaticano con la “V” maiuscola, perché mai il Governo della Repubblica ritenga di dover concordare con un’Autorità religiosa, sia pure maggioritaria, le regole dell’appartenenza allo Stato, il diritto di cittadinanza.

Quella della cittadinanza non è materia religiosa. La Chiesa, come tutte le chiese, si occupa della diffusione del verbo e della salvezza delle anime non della loro appartenenza ad una società civile per il semplice fatto che quella religiosa è una società universale (non è forse questo il significato della cattolicità della Chiesa?) cui appartengono cittadini di vari paesi, i cui membri sono uniti solamente dal fatto di credere in uno stesso Dio che per i cattolici è quello della Bibbia, come per gli ebrei, per i musulmani Allah, per altri Buddha, per altri ancora sono Brahma Shiva e Vishnù.

È gravissima l’interferenza che il titolo di Repubblica delinea come la sudditanza del governo (necessariamente con la “g” minuscola) in una materia che è propria del Parlamento e non del Governo. Di un Parlamento – va ricordato ancora una volta -, eletto sulla base di una legge dichiarata incostituzionale ed al quale residuano compiti limitati, in sostanza riferiti alla ordinaria amministrazione, come hanno scritto i giudici della Consulta nella sentenza n. 1 del 2014.

Abbiamo veramente perso la testa oltre che il senso delle regole fondamentali dello Stato di diritto.

A rincarare la dose Marco Tarquinio, direttore di Avvenire, il quotidiano della Conferenza Episcopale Italiana, che, intervistato da La Repubblica esordisce dicendo: “Vorrei ascoltare un liberale, qualcuno anche in Forsa Italia che abbia un po’ di coraggio, che si spenda per la legge sullo ius soli. E poi vediamo chi ha la statura sulla scena politica per farla approvare…”. E aggiunge “La legge sullo ius soli andava fatta ieri, altro che aspettare domani”.

Per il giornalista “si tratta di dare una mano agli italiani, a coloro che lo sono ma non vengono compresi come tali”. Ecco, dunque, che al centro della questione ci sarebbero italiani che non lo sono giuridicamente. Ma Tarquinio non si fa la domanda. Chi sono gli italiani? È sufficiente nascere in Italia e magari parlare la lingua? O serve qualcos’altro, sentirsi italiani? Non ho dubbi è necessario sentirsi italiani. Per questa ragione la legge dello Stato oggi vigente, la n. 91 del 5 febbraio 1992 (Nuove norme sulla cittadinanza) prevede che, oltre a coloro che sono figli di italiani i quali, pertanto, sono cittadini iure sanguinis, la cittadinanza può essere concessa “allo straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica” (art. 9, comma 1, lettera f). Con la precisazione (art. 10) che “il decreto di concessione della cittadinanza non ha effetto se la persona a cui si riferisce non presta, entro sei mesi dalla notifica del decreto medesimo, giuramento di essere fedele alla Repubblica e di osservare la Costituzione e le leggi dello Stato”. La cittadinanza, cioè l’appartenenza ad uno stato è, dunque, regolata da principi che attengono alla identità di un popolo, alla sua storia, alle sue tradizioni, per cui è cittadino il primo luogo il figlio di cittadini o adottato da cittadini o anche “il figlio di ignoti trovato nel territorio della Repubblica, se non venga provato il possesso di altra cittadinanza” (art. 2 comma 2). Una deroga significativa che Tarquinio dovrebbe apprezzare. Ma forse non lo sa o, più probabilmente, a lui non basta.

Le legislazione vigente, in sostanza, è aperta a varie situazioni ritenute meritevoli di riconoscimento. Non stupisce che Tarquinio non percepisca il tema della “identità nazionale”. Evidentemente appartiene a quella corrente di cattolici che non ha mai “sentito” lo stato unitario, non ne ha condiviso i valori di libertà.