Pensioni e stipendi pubblici tagliati. Stato traditore uccide la democrazia

di Salvatore Sfrecola
Pubblicato il 27 Agosto 2014 - 07:40 OLTRE 6 MESI FA

Pensioni e stipendi pubblici tagliati. Stato traditore uccide la democrazia

Renzi e Berlusconi: li unisce la rapina ai pensionati e agli statali

Salvatore Sfrecola ha pubblicato questo articolo sul suo blog, Un sogno italiano, col titolo “Se lo Stato non mantiene la parola data ai cittadini”.

Lo Stato costituzionale, come siano stati educati a riconoscerlo sulla base dell’evoluzione degli ordinamenti a far data dalla Rivoluzione Francese e dei principi della Costituzione, è, ad un tempo, l’ente dotato di supremazia nei confronti delle altre istituzioni, ma è anche l’espressione della comunità dei cittadini che costituiscono la “Nazione”.

Infatti, la sovranità, come si esprime l’art. 1 della Costituzione, “appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.

Per cui nell’immaginario di chi crede nella democrazia, ha cioè “senso dello Stato”, il rapporto tra cittadino e lo Stato è ispirato a reciproca fiducia, a lealtà, un valore non solo morale ma anche giuridico, come ha insegnato la Corte costituzionale a proposito dei rapporti tra Stato e regioni.

“Lealtà” nei confronti dei cittadini rivendica, agli albori delle libertà risorgimentali nazionali, il Re Carlo Alberto nelle premesse dello Statuto emanato il 4 marzo 1848, legge fondamentale del Regno di Sardegna e poi, dal 1861 del Regno d’Italia. “Con lealtà di Re” è l’incipit del Sovrano che allo Statuto è chiamato a giurare fedeltà, lui ed i suoi successori. Lealtà nei confronti dei cittadini con i quali stabilisce un rapporto che si basa su leggi che individuano diritti e doveri sui quali i cittadini hanno fatto legittimo affidamento.

Questo rapporto di lealtà va ben al di là del principio di legalità per cui lo Stato deve rispettare le leggi che esso stesso si è dato. Lealtà significa, come nel linguaggio comune, quello che regola i rapporti tra le persone, che lo Stato non può mancare alla parola data, non può tradire i cittadini che da lui legittimamente si attendono determinati comportamenti. E se cambia le leggi lo fa per il futuro.

Accade, invece, che lo Stato, da tempo e particolarmente in questa stagione della politica italiana, manchi sovente alla parola data. Lo ha fatto di recente con gli stipendi dei dipendenti pubblici, si appresta a farlo, a quanto si dice, di nuovo, con i pensionati. In un caso e nell’altro si parla di riduzioni consistenti delle somme riconosciute da leggi sulla base di contribuzioni prelevate dal lordo del trattamento economico di servizio.

La ragione di questa incisione sui redditi è data, si dice, da esigenze di solidarietà, per sovvenire alle gravi difficoltà economiche nelle quali si trovano vasti strati della popolazione a seguito delle fallimentari politiche finanziarie ed economiche portate avanti dai governi.

Il tema, dunque, va analizzato nei suoi termini effettivi.

Innanzitutto va detto che stipendi e pensioni sono determinati sulla base di norme delle quali il cittadino era consapevole al momento dell’ingresso nel mondo del lavoro e sulle quali ha fatto affidamento. Sapeva di poter contare su un determinato reddito in relazione alla specifica professionalità richiesta.

Sicché chi ha scelto di fare il funzionario parlamentare, il magistrato o l’avvocato dello Stato, per richiamare le categorie prese di mira dal Governo Renzi, era consapevole della necessità di una specifica preparazione professionale per affrontare una selezione rigorosa ed impegni di lavoro rilevanti, ai quali si aggiungono, in particolare per i magistrati, limitazioni personali non indifferenti ma accettate in ragione della funzione svolta.

Ad esempio chi ha scelto di indossare la toga del giudice o del pubblico ministero deve essere indipendente, ma deve anche apparire tale agli occhi dei cittadini. Per cui sono ampiamente giustificate le critiche politiche e giornalistiche nei confronti di magistrati che, partecipando ad iniziative politiche di partito, danno chiara dimostrazione di essere “di parte”.

Questi cittadini, che hanno posto la loro professionalità al servizio delle istituzioni, ma lo stesso vale anche per i manager pubblici, se avessero saputo di essere privati di lì a qualche anno di parte dello stipendio avrebbero probabilmente scelto altro settore lavorativo nel privato anche in forma libero professionale. Inoltre, non avrebbero assunto decisioni personali, come comprare una casa e accendere un mutuo, ecc. che all’epoca sapevano di poter sostenere.

Lo stesso vale per i pensionati, i quali nel corso del servizio hanno contribuito, con riduzioni di stipendio (gli oneri previdenziali), a costruire il loro futuro una volta usciti dal mondo del lavoro.

Si dice. Dobbiamo aiutare chi ha bisogno ed a questo si fa fronte con la solidarietà di chi può.

E qui torna il rapporto di lealtà prima richiamato al quale lo Stato deve sentirsi vincolato. Nel senso che prima di chiedere sacrifici ai cittadini, privandoli di somme per i quali essi vantano una legittima aspettativa, lo Stato deve darsi carico di recuperare risorse in casa propria, eliminando sprechi e spese inutili che sono spesso effetto di corruzione.

Cominciando dal verificare se nella realizzazione di forniture di beni e servizi sono state rispettate due regole fondamentali: la necessità degli acquisti e la congruità dei prezzi. Per non dire della, evidentemente tollerata, imponente evasione fiscale, stimata pubblicamente dall’allora Direttore dell’Agenzia delle Entrate in circa 200 miliardi annui, una somma che se recuperata al 10 per cento consentirebbe di evitare la manovra che, più o meno in quella misura, il Governo si appresterebbe ad adottare.

Se lo Stato non elimina sprechi, corruzione ed evasione fiscale evidentemente dimostra di preferire ai cittadini onesti coloro i quali si arricchiscono a danno del bilancio e del patrimonio pubblico. Magari per assicurare risorse illecite alla politica.

Insomma il cittadino legittimamente può dire allo Stato, prima di chiedere a me va a verificare dove puoi risparmiare se, come si sente dire, un chilometro di strada o di ferrovia in Italia costa molto più che in paesi vicini. Ed un immobile pubblico quattro o più volte del preventivato.

Lealtà, dunque, dello Stato nei confronti del cittadino, come ha affermato Pietro Ostellino sul Corriere della Sera. “Il contratto tradito” titola il più grande quotidiano italiano spiegando che “l’ipotesi governativa di toccare le pensioni cosiddette alte per aiutare gli esodati – i lavoratori che, in forza di una legge, non hanno più un lavoro, ma neppure la pensione – ferma l’orologio delle riforme alla redistribuzione della ricchezza (si toglie a qualcuno per dare ad altri) già praticata dai governi precedenti e che ha portato l’economia nazionale nella depressione della crescita zero”.

“La previdenza – spiega Ostellino – è una sorta di contratto che il lavoratore stipula con lo Stato, in base al quale, dietro il pagamento di contributi durante gli anni lavorativi, il cittadino riceverà una pensione.

L’assistenza è l’aiuto che lo Stato (sociale) fornisce ai meno abbienti attraverso la fiscalità generale.

Il nostro Stato – che fa volentieri confusione fra assistenza e previdenza – supplisce alle proprie carenze sociali e finanziarie con la redistribuzione della ricchezza.

Questa – che meglio sarebbe definire distruzione di ricchezza – si traduce in una doppia tassazione per chi ha già ha pagato le tasse sui propri guadagni e finisce così col (ri)pagarle, in modo surrettizio, con la sottrazione da parte dello Stato di una parte ulteriore di quegli stessi guadagni. Se, dunque, lo Stato tradisce, o mostra di voler tradire, il contratto previdenziale, non c’è più certezza del diritto, il cittadino non è in grado di programmare la propria vita, smette di spendere, gli investimenti si fermano, lo sviluppo si arresta”.

La lunga citazione conferma la fondatezza dell’impostazione di queste mie riflessioni.

Alle quali vorrei aggiungerne altre. Il “tradimento”, la mancanza di lealtà che altera il rapporto Stato-cittadini è la stessa fine del ruolo dell’Autorità pubblica ed apre la strada alla disaffezione nei confronti delle istituzioni, come dimostra l’elevata astensione dal voto elettorale e la diffusa illegalità di cui dà dimostrazione non solo la ricordata evasione fiscale, elevatissima, ma anche la ricorrente emersione di furbizie a tutti i livelli, per cui sulla base di autocertificazioni false si ottengono benefici che non spettano.

Siamo di fronte all’illegalità. Ed è evidente che la mancanza del rispetto della parola data vale a giustificare, agli occhi di chi non ha il senso della legalità, le furbizie e le vere e proprie truffe che giornalmente si perpetrano ai danni della legge e della pubblica finanza.

“L’ennesimo colpo alla fiducia collettiva – ha scritto Michele Ainis sul Corriere della Sera (“La fiducia nelle istituzioni – Un sentimento impalpabile”) – come le bugie di Stato, come le rapine fiscali, come le leggi ingannevoli che parlano ostrogoto per non farsi capire, neanche dai parlamentari che le votano. Eppure è la fiducia, è l’affidamento nella lealtà delle istituzioni, che dà benzina alle democrazie”.

Chiudo con una parola ben più autorevole della mia, di Pietro Ostellino e di Michele Ainis. Nel Vangelo di Matteo (20.1.16) riferisce della parabola del padrone di casa che aveva preso “a giornata lavoratori per la sua vigna”, all’alba e nelle ore successive. Tutti, dice l’Evangelista “ricevettero ciascuno un denaro” indipendentemente dalle ore lavorate, come il padrone aveva promesso a ciascuno di loro. Ed a quanti protestavano per aver preso come coloro che avevano lavorato di meno “il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene”.

Oggi avviene il contrario. Si nega ciò che era stato stabilito.

È un degrado del costume che ha conseguenze gravissime sul futuro della società italiana. Uno Stato che comincia a manomettere le regole non è affidabile. Perde credibilità.