Riforma del Senato: Camera Alta o ritorno allo Statuto albertino?

di Salvatore Sfrecola
Pubblicato il 17 Aprile 2014 - 07:40 OLTRE 6 MESI FA
Riforma del Senato: Camera Alta o ritorno allo Statuto albertino?

Chi siederà nell’aula del Sanato dopo la riforma di Renzi e Verdini?

Alla riforma del Senato proposta dal Governo di Matteo Renzi non hanno manifestato contrarietà solamente i “professoroni”, come Maria Elena Boschi, Ministro per le riforme costituzionali, ha qualificato, con una buona dose di supponenza, Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky e gli altri studiosi che hanno firmato un appello contro il complesso delle riforme istituzionali proposte da Matteo Renzi e sostenute (sembra) da Silvio Berlusconi, ritenute espressione di democrazia plebiscitaria basata su una centralizzazione dei poteri statali, unita al rafforzamento delle competenze del Presidente del Consiglio, la trasformazione del Senato e una legge elettorale con un premo di maggioranza molto consistente.

Così Nadia Urbinati, Gustavo Zagrebelsky, Stefano Rodotà, Lorenza Carlassare, Alessandro Pace, Roberta De Monticelli, Gaetano Azzariti, Alberto Vannucci, Simona Peverelli, Salvatore Settis e Costanzo Firrato hanno preso carta e penna ed hanno manifestato le loro preoccupazioni per le conseguenze di un progetto a loro giudizio destinato a “stravolgere la nostra Costituzione da parte di un Parlamento esplicitamente delegittimato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 1 del 2014”.

Quei professori non sono i soli ad esprimere dubbi ed a formulare proposte alternative. A cominciare da Eugenio Scalfari, andato giù pesante con critiche mirate e un progetto di “Camera Alta” che a taluno è parso evocasse l’esperienza del Senato del Regno.

Nel fondo di domenica 6 aprile (In povertà sua lieta sciala da gran Signore) Scalfari ha scritto:

”Matteo Renzi è per il cambiamento? Anche noi siamo per il cambiamento. Renzi è per le riforme? Anche noi siamo per le riforme. Renzi è per la prevalenza della politica sull’economia? Noi siamo per l’economia politica, forse è la stessa cosa detta con altre parole, ma forse no, dipende. Renzi è per gli annunci ai quali seguiranno i fatti? Noi siamo per i fatti e per i programmi che inquadrano i fatti già avvenuti nel quadro di un sistema. Infine, Renzi è per la riforma del Senato ed anche noi lo siamo, ma c’è riforma e riforma, cambiamento e cambiamento, innovazione e innovazione”. Aggiungendo “Il problema dunque è questo: dare alla parola Senato un nuovo ma sostanzioso significato. Oppure tanto vale abolirlo”.

Ed ecco la critica: “Il Senato delle autonomie non ha senso alcuno, c’è già la conferenza Stato-Regioni, che comprende anche i Comuni; è formata da tutti i governatori e da tutti i sindaci ed ha un comitato ristretto eletto dall’assemblea di tutti i suddetti. Non costa un centesimo se non il viaggio a Roma quando l’incontro col governo ha luogo. Il Senato delle autonomie sarebbe un inutile doppione”. E ricorda che, per i romani, Senatus populusque era l’unione del Senato e del Popolo dell’Urbe perché nell’evoluzione dell’istituzione, tra regno e repubblica, quell’assemblea aveva comunque mantenuto l’auctoritas e il consilium, con ruolo, rispettivamente, di approvazione della volontà manifestata dal populus nei comitia, in funzione del controllo di costituzionalità delle deliberazioni comiziali e di ausilio alle decisioni sovrane, attuando quella costituzione mista che il greco Polibio individuava proprio nella relazione finalistica tra auctoritas e consilum. Da segnalare che il Senato di Roma mantenne anche nell’impero un ruolo costituzionale fondamentale.

L’iniziativa di Renzi tende esplicitamente al superamento del bicameralismo “perfetto” o “paritario”, caratterizzato, come sappiamo, dall’esistenza di due assemblee titolari di analoghe attribuzioni, differenziate solamente nell’elettorato attivo (25 anni) e passivo (40 anni) e nella identificazione dei collegi elettorali, essendo il Senato eletto “a base regionale” (art. 57 Cost.). Troppo poco, si dice, per giustificare due Camere, la cui presenza allunga naturalmente i tempi della produzione legislativa, spesso con ripetute “navette” tra Montecitorio e Palazzo Madama, anche se l’esperienza, dall’entrata in vigore della Costituzione ad oggi, insegna che più volte la doppia lettura ha rimediato a svarioni giuridici e ad errori politici, spesso gravi. E ciò nonostante sono state approvate leggi dichiarate incostituzionali dalla Consulta.

Il dubbio che la scelta di due camere paritarie fosse utile al buon funzionamento della democrazia e all’esercizio della funzione legislativa l’avevano avuta anche alcuni dei costituenti. Ed anche negli anni successivi il bicameralismo è stato argomento di discussione tra gli studiosi ed i politici, come dimostrano, tra le altre, le riflessioni di Meuccio Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione (cosiddetta “dei 75”) consegnate in vari scritti negli anni successivi. Ricordando che “quanto ai poteri delle due Camera, quasi tutte le Costituzioni che le conservano, danno, nel dissenso, prevalenza ad una di esse” (La Costituzione italiana: lineamenti e problemi aperti, in Comitato nazionale per la celebrazione del primo decennale della promulgazione della Costituzione (a cura), Raccolta di scritti sulla Costituzione. Studi sulla Costituzione, Milano, Giuffré, 1958, III, 492).

Se ne è tornato a discutere con insistenza più di recente, fin dal primo governo Berlusconi (1994), con critiche ai tempi lunghi della produzione normativa tanto da giustificare il ripetuto ricorso alla decretazione d’urgenza, con provvedimenti approvati il più delle volte sulla base di maxiemendamenti sorretti da mozioni di fiducia, con l’effetto di limitazione del diritto di emendamento dei parlamentari, nonostante, come vedremo, maggioranze molto consistenti.

Oggi si dice che semplificare significa anche risparmiare, un verbo denso di suggestioni in un momento in cui si afferma l’esigenza di ridurre i costi della politica. Infatti oggi la riforma del Senato proposta dal Governo prevede meno senatori, non eletti da designati da enti locali, senza diritto ad una indennità. Anche se qualcuno ha osservato che comunque una diaria andrà senz’altro riconosciuta per viaggio, vitto e alloggio. Mentre su Twitter vi è chi ha osservato che i nuovi senatori non potrebbero fare a meno di una segreteria e, ovviamente, di una segretaria.

E qui, passando dalla critica alla proposta, Scalfari, in alternativa al progetto governativo, propone una Camera Alta, come si diceva un tempo, con un ruolo politico significativo. Politico nel senso più nobile e ampio, con un ruolo di garanzia di legalità efficienza e buona amministrazione, con un raccordo con la cultura, la scienza, e le istituzioni.

Infatti. “il Senato non dovrà più votare la fiducia al governo né approvare il bilancio dello Stato e la legislazione connessa, salvo che non si ravvisi una violazione costituzionale. Sulla costituzionalità di tutti gli atti del governo il Senato potrebbe, anzi dovrebbe esercitare la sua vigilanza allo stesso modo in cui l’esercita la Camera. Così pure potrebbe, anzi dovrebbe esercitare un accurato controllo sulla pubblica amministrazione, tanto più rigoroso in quanto la Camera esprime il governo e lo sostiene con la sua fiducia. Il Senato è dunque il ramo del Parlamento più consono al controllo della regolarità e dell’efficienza della pubblica amministrazione. Si dirà che una parte di questo controllo è affidato alla Corte dei Conti, ma quella è una magistratura che persegue irregolarità o addirittura reati di natura contabile”. Laddove il ruolo del Senato sarebbe politico.

“Infine il Senato potrebbe, anzi dovrebbe svolgere un ruolo culturale approfondendo temi scientifici, sanitari, ecologici, umanistici, che spesso sono affrontati dal governo e dalle Regioni senza preparazione e quindi compiendo errori che possono essere di grave nocumento per i governati. Per adempiere a questo compito il Senato dovrebbe esser composto da un certo numero di membri che rappresentino altrettante “eccellenze” e le mettano a tempo pieno a disposizione del paese. Non possono certo essere eletti, ma nominati dal capo dello Stato che potrà avvalersi di rose di nomi fornite da Accademie culturali, Università, scuole specializzate”.

Per aggiungere che “I temi per fare dell’attuale Senato non una scatoletta vuota ma una Camera Alta nel pieno senso della parola, sono questi e su di essi si può e anzi si deve svolgere un libero dibattito che porti ad una legge costituzionale idonea a costruire un’equilibrata architettura costituzionale”. Concludendo che “in una fase in cui si aumenta il potere decisionale del governo e soprattutto quello del premier, annullare completamente una delle due Camere configura una tendenzialità autoritaria estremamente rischiosa specie in tempi di partiti personalizzati. La premiership è cosa del tutto diversa dall’attuale presidenza del Consiglio. Diversa e probabilmente necessaria purché opportunamente bilanciata. I poteri e il rapporto tra di essi in Usa tra il Presidente degli Stati Uniti e il Congresso ne sono la prova, confortata da quella del Regno Unito britannico nel rapporto tra il premier e i Comuni. Congresso in America, Camera dei Lord in Gran Bretagna sono due esempi da non perder di vista in Italia e nella futura Europa nel giorno auspicabile in cui diventerà un vero Stato federale”.

È sembrato che Scalfari si sia ispirato, senza citarla, all’esperienza del Senato del Regno d’Italia. Lo hanno notato anche alcuni interventi su Twitter, i quali hanno perfino suggerito, in tono scherzoso, che il quotidiano fondato da Scalfari cambiasse nome, da La Repubblica a La Monarchia.

Dove, dunque, le somiglianze con la Camera Alta come delineata dall’art. 33 dello Statuto Albertino? Composto di “membri nominati a vita dal Re, in numero non limitato, aventi l’età di quarant’anni compiuti”, i senatori venivano scelti tra: 1° Gli Arcivescovi e Vescovi dello Stato; 2° Il Presidente della Camera dei Deputati; 3° I Deputati dopo tre legislature, o sei anni di esercizio; 4° I Ministri di Stato; 5° I Ministri Segretari di Stato; 6° Gli Ambasciatori; 7° Gli Inviati straordinarii, dopo tre anni di tali funzioni; 8° I Primi Presidenti e Presidenti del Magistrato di Cassazione e della Camera dei Conti; 9° I Primi Presidenti dei Magistrati d’appello; 10° L’Avvocato Generale presso il Magistrato di Cassazione, ed il Procurator Generale, dopo cinque anni di funzioni; 11° I Presidenti di Classe dei Magistrati di appello, dopo tre anni di funzioni; 12° I Consiglieri del Magistrato di Cassazione e della Camera dei Conti, dopo cinque anni di funzioni; 13° Gli Avvocati Generali o Fiscali Generali presso i Magistrati d’appello, dopo cinque anni di funzioni; 14° Gli Uffiziali Generali di terra e di mare; Tuttavia i Maggiori Generali e i Contr’Ammiragli dovranno avere da cinque anni quel grado in attività; 15° I Consiglieri di Stato, dopo cinque anni di funzioni; 16° I Membri dei Consigli di Divisione, dopo tre elezioni alla loro presidenza; 17° Gli Intendenti Generali, dopo sette anni di esercizio; 18° I membri della Regia Accademia delle Scienze, dopo sette anni di nomina; 19° I Membri ordinarii del Consiglio superiore d’Istruzione pubblica, dopo sette anni di esercizio; 20° Coloro che con servizii o meriti eminenti avranno illustrata la Patria; 21° Le persone, che da tre anni pagano tre mila lire d’imposizione diretta in ragione de’ loro beni, o della loro industria”.

Sulla base di queste indicazioni statutarie nel tempo furono nominati senatori personalità eminenti della cultura, delle arti e delle scienze, da Alessandro Manzoni a Giuseppe Verdi a Giosuè Carducci, Maffeo Pantaleoni, Benedetto Croce, Giovanni Gentile, Luigi Einaudi, matematici come Ulisse Dini, Francesco Brioschi, Luigi Cremona Giuseppe Colombo, sul cui manuale, ricorda Giovanni Vittorio Pallottino (Cultura e scienza nel Senato di ieri e lo hanno Perfetti), hanno studiato generazioni di ingegneri. Poi fisici come Antonio Pacinotti, Augusto Righi, Guglielmo Marconi, Galileo Ferraris, Eugenio Morelli, Carlo Forlanini, Antonio Cardarelli, nomi di rilievo internazionale a tutti noti.

Il tema della utilità di “introdurre nella Camera alta una componente di esperti e competenti” lo hanno ripreso ieri Carlo Melzi d’Eril e Giulio Enea Vigevani su La Domenica (Per un Senato previdente, a pagina 37) de Il Sole-24 Ore che suggeriscono l’integrazione di quell’assemblea con personalità che per la loro esperienza e preparazione “potrebbero, quando propongono modifiche alle leggi approvate dalla Camera, far presente i risultati della riflessione della scienza e della cultura”. Ugualmente Stefano Merlini sulla stessa pagina (Le garanzie da reintrodurre) giudica “inaccettabile” la proposta governativa, in quanto “la condivisibile abolizione del “bicameralismo perfetto” per ciò che riguarda sia la fiducia al governo che la approvazione delle leggi di indirizzo politico derivanti dalla fiducia non può coincidere con la brutale cancellazione della componente elettiva del Senato stesso, anche perché la presenza di una significativa quota di senatori eletti dediti in maniera esclusiva all’esercizio delle loro funzioni appare indispensabile per il mantenimento di un alto livello qualitativo dell’organo e per la stessa configurabilità del principio della responsabilità politiva degli eletti nei confronti dei loro elettori”.

Perché i Costituenti vollero il bicameralismo, e lo vollero “perfetto” nonostante del ruolo delle due camere si sia discusso a lungo in Italia anche al tempo del Regno? I Costituenti – ha scritto in proposito su BlitzQuotidiano Michele Marchesiello, già magistrato ordinario, esperienze internazionali anche come docente, una vasta attività pubblicistica – vollero trovare un ragionevole equilibrio tra visioni e “miti” contrastanti: in particolare tra quello “roussoviano” della sovranità popolare come unica fonte della legge e quello “romantico” della rappresentanza corporativa degli interessi. Il primo difeso dalla sinistra, il secondo propugnato dalla componente “conservatrice”. In base al primo mito – sottolinea – , non poteva esservi che una sola camera, secondo il detto di Saint Simon, per cui “la maggioranza deve imporre le sue leggi” e “la verità è quella che esce dalla maggioranza, quindi dall’unica camera (o dalle due camere, purché provengano dalla stessa sorgente)”. In base al secondo mito, definito da Luigi Einaudi come un ‘ritorno romantico al medioevo’, l’individuo si realizza compiutamente solo nel ceto o nel gruppo professionale cui affida la difesa dei propri interessi”.

“Sarebbe stato quindi ragionevole – secondo questo punto di vista – che nella Camera la fonte della rappresentanza fosse la sovranità popolare di cui ognuno è detentore parcellare, mentre nel Senato la rappresentanza dovesse essere l’espressione di quell’appartenenza “sociale”, determinata in pratica dal lavoro e dalla partecipazione alla produzione”.

È un po’ il modello tenuto presente dall’Assemblea Costituente nell’istituzione del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (C.N.E.L.), che oggi il governo intende sopprimere, nel quale sono presenti lavoratori e “produttori”, in una società che richiede l’adozione di norme spesso ad alto contenuto tecnico specialistico per disciplinare situazioni complesse che non sono nella conoscenza dei rappresentanti del popolo per cui questi ricorrono all’ausilio degli uffici parlamentari o ministeriali, quando non alle lobby interessate alle stesse norme.

La proposta di Scalfari, sulla quale si può certamente discutere quanto al metodo di scelta delle categorie ed alle attribuzioni legislative e non della seconda camera, ha indubbiamente il merito di considerare l’esigenza di un contemperamento di rappresentanza popolare e di esperienza tecnica.

Quanto alla inefficienza del bicameralismo sotto il profilo del rallentamento della produzione legislativa, l’esperienza ci dice che maggioranze poderose, le più consistenti della storia della Repubblica, non sono riuscite molte volte ad assicurare un iter legislativo celere. In questo senso le responsabilità – pur nella condivisione della necessità di andare oltre il bicameralismo “perfetto” – sono altrove, in primo luogo nella incapacità dei partiti di assumere un atteggiamento condiviso e di difenderlo, nelle commissioni e in aula, e dei gruppi parlamentari di essere coerenti rispetto alle scelte fatte. Per incapacità, per influenza delle lobby, per impreparazione del parlamentari rispetto alle problematiche tecniche oggetto dello specifico provvedimento normativo? C’è indubbiamente un po’ di tutto questo.

Peraltro, la strada per rendere efficiente la produzione legislativa, dal punto di vista qualitativo e dei tempi, è quella indicata dal Governo? I dubbi sono molti ed attengono alla preoccupazione, manifestata dai “professori” e non solo, per il grave squilibrio che si verrebbe a determinare, con la sostanziale eliminazione del Senato, nel bilanciamento tra i poteri dello Stato a tutto vantaggio di un esecutivo dinamico. Considerato che l’efficienza richiede una scelta meditata preceduta da adeguata conoscenza della materia sulla quale intervenire e da una prefigurazione degli effetti, da quella simulazione che i buoni legislatori sanno fare da sempre per verificare la bontà delle scelte.

Un metodo che deve essere la regola di qualunque intervento normativo. Se, poi, parliamo di Costituzione, cioè della legge fondamentale dello Stato, quella che ne assicura il buon funzionamento, serve il massimo della cautela. E sentir dire “se dovessimo accorgerci di aver sbagliato rimedieremo” fa un certo senso in chi crede nelle istituzioni.