Violenza domestica colpe mai pari ma a Genova pagano i figli

di Simona Napolitani 
Pubblicato il 22 Gennaio 2016 - 07:15| Aggiornato il 26 Febbraio 2020 OLTRE 6 MESI FA
Violenza domestica colpe mai pari ma a Genova pagano i figli

Perché sono i figli a pagare per le liti dei genitori? Perché a Genova hanno allontanato i bambini dalla madre invece di estromettere il padre?

Violenza domestica, a volte ci sono decisioni che gridano vendetta. È difficile a credersi, ma in Italia non si riescono ancora a gestire, da un punto di vista sociale e da un punto di vista giuridico, le coppie definite “conflittuali” ed i nuclei familiari nei quali si esercita violenza domestica.

Si fa erroneamente e superficialmente di tutt’erba un fascio.

Scoppiano le liti, nessun sostegno viene effettivamente e proficuamente offerto alle famiglie in crisi, spesso tormentate da forme di violenza domestica, nelle quali diventa estremamente difficile gestire la quotidianità e dove ogni occasione può costituire motivo di litigio, spesso alla presenza dei figli.

Questo modello di famiglia, sostanzialmente sola, non ha possibilità di chiedere un sostegno privato, tra i figli da mantenere, l’affitto o il mutuo da pagare, le rate della macchina, non restano risorse per altro.

A volte il conflitto aumenta e l’intollerabilità della convivenza, spesso l’esplosione di casi di violenza domestica, porta i coniugi a separarsi, tra tante difficoltà: dalla seconda abitazione, dove il marito o la moglie, che lasciano la casa coniugale, devono andare a vivere, alle spese per i figli da pagare, insomma, a seguito della separazione, sia essa giudiziale o consensuale, i costi della famiglia sostanzialmente si raddoppiano, tanto che, a volte, decidere di interrompere la convivenza è un lusso che  non sempre ci si può permettere.

In tutto questo, i figli soffrono, ma anche per loro i sostegni sociali sono a volte un miraggio, con lunghe liste di attesa e non sempre con personale specificamente formato.

Altra cosa è la violenza, erroneamente le Istituzioni non riconoscono le condotte maltrattanti del marito ed anche in questi casi si parla di conflitto, non si può considerare un nucleo in cui si esercita violenza, alla stregua di una famiglia in cui si litiga.

La violenza domestica è altra cosa e se le Istituzioni che intervengono non sanno interpretare con correttezza i reali comportamenti  e le relative conseguenze, si adottano provvedimenti che non corrispondono allo stato dei fatti e alle esigenze dei minori che vivono in quel nucleo.

È quello che è successo al Tribunale di Genova, che, con una recente sentenza, ha tolto i figli alla madre, vittima delle violenze da parte del marito, affidandoli a una comunità poco distante dalla casa coniugale.

Questi, sommariamente, i fatti: la moglie un giorno chiede aiuto ai Carabinieri, sostenendo di essere ancora maltrattata dal coniuge, nonostante ci fosse già stata una precedente denuncia a metà dell’anno 2013, lei casalinga, lui operario. Attivati i Servizi, questi spiegano all’Autorità Giudiziaria che i due fratelli di sette o otto anni subiscono una forma di “violenza assistita”, perché testimoni oculari dei maltrattamenti in famiglia. Su tale profilo nulla da dire, l’esame è corretto.

Ma il punto cruciale della vicenda, a mio avviso è il seguente: una precedente denuncia per maltrattamenti nel 2013, presentata dalla donna ai danni del marito; nel 2015 la donna chiama i Carabinieri, si presume in un momento di difficoltà a causa delle violenze del marito, altrimenti che senso avrebbe chiamare le Forze dell’Ordine? Possiamo dire che ci sono elementi che fanno fondatamente presumere che la moglie sia stata per anni, come purtroppo un infinito numero di donne nel mondo, vittima delle violenze del marito. A tal riguardo i dati forniti dai Centri Antiviolenza d’Italia sono chiari nel testimoniare quanti sono i casi di maltrattamenti in famiglia.

Bene, questo il quadro, a seguito del quale, il provvedimento dell’Autorità Giudiziaria si esprime nel senso di togliere i figli ad entrambi i genitori per portarli in una Comunità.

Insomma, l‘Autorità Giudiziaria, come spesso avviene anche da parte di altre Istituzioni che fanno rete intorno ad un nucleo familiare, ha equiparato la posizione del padre a quella della madre, come se, tra carnefice e vittima, ci potesse essere una medesima valutazione.

Non solo, sradicare i figli, già sicuramente provati, anche dal rapporto stabile, giornaliero e semmai rassicurante con la madre, vuol dire, sicuramente, causare loro un altro trauma.

E se invece si fosse allontanato l’uomo violento, dando la possibilità alla madre ed ai due minori di continuare a vivere nel medesimo ambiente, con gli stessi riferimenti, recuperando un po’ di serenità, disponendo anche un eventuale valido sostegno alla madre ed ai figli, ma senza separare i figli dalla madre?

La violenza domestica non può essere attribuita in maniera paritetica all’uomo e alla donna, c’è sempre un soggetto agente ed un soggetto che subisce; se letta con la dovuta attenzione e formazione, si eviterebbero provvedimenti con cui i figli vengono istituzionalizzati, così punendo, inoltre, anche un genitore che ha il solo torto di essersi difeso dalle botte.