Paolo Villaggio, festa degli 80 col sindaco di Genova: “Il sesso come va?”

di Franco Manzitti
Pubblicato il 21 Gennaio 2013 - 07:45| Aggiornato il 15 Maggio 2022 OLTRE 6 MESI FA

Paolo Villaggio ha compiuto ottanta anni e lo festeggiano proprio nella sua patria mai ripudiata, Genova, con cerimonie e feste da supercittadino. Ma lui non rinuncia neppure per un secondo al suo ruolo di comico-provocatore- attore- dalla vena caustica, dai contropiedi di battute e irridenti provocazioni e il primo a farne le spese è proprio il sindaco che con la fascia tricolore va a abbracciarlo.

Al sindaco di Genova, Marco Doria, marchese di storico sangue blu e professore di Economia, che gli andava incontro per accoglierlo nel nobile palazzo Tursi, sede seicentesca del Comune di Genova, Villaggio ha chiesto a bruciapelo: “Sindaco, ma come va la sua vita sessuale?”. Pochi giorni prima so è messo dalla parte di Silvio Berlusconi: “Chi ha detto che un anziano non può innamorarsi?.

Ottanta anni e una carriera che era partita proprio dai più goliardici palcoscenici genovesi della compagnia “Baistrocchi”, quella dei protagonisti tutti maschi che si mascheravano da ballerine del can can, poi dal cabaret all’ombra del mitico teatro Stabile di Ivo Chiesa e Giovanni Squarzina, dal talent scout Costanzo che lo portò a Milano nei fulgidi cabaret degli anni Sessanta, fucina di talenti comici e artistici.

Paolo Villaggio entra nel nobile palazzo genovese, portando la sua faccia vera di genovese a fianco del fratello gemello, Piero, la sua antitesi fisica, intellettuale, estetica, l’ uno attore-comico, inventore di personaggi epocali della comicità, ma anche dell’arte recitatoria, dal professor Kranz a Fracchia e alla sua epopea, un cult eterno e l’altro, un grande professore di matematica, quasi ascetico e silenzioso. Tesi e antitesi in salsa genovese, 160 anni in due.

Tutti in piedi e il sindaco Doria sulla porta, perchè con Villaggio entrano tutte le sue maschere diventate in qualche modo immortali, ma entra anche un pezzo di Genova che lui, provocatore anche nell’ultima analisi, definisce ancora “altamente aristocratica, nobile, austera” e bellissima in questo inverno dei mille tormenti.

“Sono stato a Boccadasse a mangiare il gelato, e poi in via san Vincenzo da Mario a comprare la foccaccia”, dice Villaggio ai giovani intervistatori, citando i luoghi ombelicali della sua radice genovese, come se fossero il Sunset Boulevard e place Pigalle e invece sono luoghi comuni e quasi simbolici di una infanzia, adolescenza che lui, diventato causticamente Grande, non ha mai dimenticato o rinnegato, come il profumo del pitosforo d’estate sulla passeggiata a mare della città, Corso Italia, e via San Giuliano, una stradina tra spiaggia a promenade dove conquistò la sua futura moglie Maura Albites, riempendo un bicchiere di lucciole.

Villaggio romatico a ottantanni? No Villaggio è lui sempre, secco e quasi sfacciato ma ancorato a ogni particolare della sua storia personale, che è diventata pubblica, ma che lui racconta come quella di un genovese qualsiasi che magari ha fatto carriera.
“Ci faccia una classifica dei genovesi importanti della storia”, gli chiedono nella intervista sulla porta del Comune. E lui, dopo avere citato Cristoforo Colombo al primo posto, si piazza al terzo, dopo Fabrizio De Andrè, la cui morte è l’unica che ha pianto con lacrime vere, che scrisse con lui l’epica canzone di Carlo Martello che tornava dalla guerra.

E poi, irridente, cita al quarto posto Gianluca Vialli, che non era genovese ma giocò nella Sampdoria, la squadra che Villaggio ama e che è uno dei cordoni ombelicali con Genova, in cui torna di rado ma sempre con ventate di nostalgia corrosiva che solo lui sa spalmare sui ricordi, smitizzandoli, ma mantenendoli vivi con quel linguaggio per il quale qualcuno, nella festa del genetliaco numero Ottanta, lo ha definito uno dei più grandi scrittori comici del Novecento. Fama e riconoscimenti conquistati, grazie a quei racconti sulle avventure di Fracchia, pubblicati dall’Europeo di Tommaso Giglio, Giorgio Bocca e Oriana Fallaci, diventati libri best seller negli anni Settanta.

A festeggiarlo ci sono in tanti che il Salone di rappresentanza di Palazzo Tursi non riesce a conterli, tutti travolti da quell’empito che rompe il muro spesso fasullo dell’understatment genovese. C’è a festeggiare, ovviamente, Paolo Fresco, l’ex presidente della Fiat, che oggi passa il tempo tra la Toscana e il gioco degli scacchi a Portofino, ma che è uno dei grandi amici di Villaggio dai tempi del liceo Doria, dove studiavano nella stessa classe di una scuola-fucina di una raffica di generazioni-chiave della città e non solo.

E poi c’è Antonio Ricci, l’inventore di tanti show cult della televisione e il direttore di “Striscia la notizia”, che è come un suo erede e c’è Dori Ghezzi, la moglie di Fabrizio, Sergio Cofferati e per un pelo non arriva Renzo Piano, uno degli altri che Villaggio cita nella sua hit parade di genovesi illustri nella Storia. E ancora c’è Vittorio Sirianni, amico dei tempi della Baistrocchi e collega alla Italsider.

Non c’è un filo di emozione nella celebrazione in pompa magna per gli ottanta anni che Paolo Villaggio ricorda di avere raggiunto con grande stupore. Anzi si smitizza: “ Mi sembra quasi un funerale questa festa”, sibila lui: “Guardate quanto cordoglio c’è in giro.”

E poi, tanto per non illudere troppo i presenti li gela, sarebbe meglio dire, li smutanda, secondo il suo gergo, annunciando che i novanta anni li festeggerà a Parigi. Perché ? “Perché Parigi è una città che mi piace”. Come dire Genova sei bella e aristocratica ancora, ma non illuderti troppo.

Lo festeggiano, lo sfottono un po’, cercano di scuoterlo con i ricordi, ma con lui non ce ne è bisogno e la maschera che indossa sembra quella universale che non ti spieghi come si sia costruita su Villaggio Paolo, figlio di una famiglia superborghese, il padre illustre e famoso, l’educazione da quartieri alti, infanzia e adolescenza tra salotti altolocati e frequentazioni superborghesi, ma con in corpo già quella vena comico-rivoluzionaria che serpeggia a Genova, indipendentemente dal ceto, dalla formazione, dalla cultura. La vena dei cantautori e di Fabrizio, il cantore numero uno della città che ha reso la lingua, stretta, acida, dal sorriso stretto, come dicono i proverbi dialettali, nota al mondo, cantando “Creuza de ma’”.

Non è questa la città che oggi “produce” un personaggio come Beppe Grillo, origine plebea, casa nel quartiere di san Fruttuoso che il mondo originario di Villaggio considerava quasi proletario e che oggi vive sull’altura nobile di Sant’ilario, che sarebbe come dire Santa Monica in California e da lì, dal suo giardino riservato e tra ville straborghesi, “grilleggia” e coltiva i semi della sua antipolitica.

Non sono nati qua in quella generazione Villaggio-De Andrè-Paoli anche uomini inventori di tv come Arnaldo Bagnasco, della radio come Cesare Viazzi? E non nasce e si coltiva qua ora Crozza, un altro vate tra comicità e politica e non continua a cantare Gino Paoli, la colonna sonora di tre o quattro generazioni, che abita sulla collina di fronte a quella di Grillo ma in una casa molto meno elegante e riservata? E che fu parlamentare del Pci e più recentemente uno che per la politica si appassiona e si spende soprattutto se può difendere la sua città?

Misteri creativi di Genova, spesso enclave chiusa, blindata nei suoi atteggiamenti di riserbo schizzinoso, di differenze che si spappolano spesso tra strade, quartieri, livelli sociali, liquefacendosi di fronte all’estro, alla “classe” che scavalca ogni barriera che fa scendere i ricchi-benestanti-borghesi e fa salire i poveri-proletari-piccoli borghesi.

Salire e scendere, un imperativo categorico dei zeneises, non solo su ascensori e funicolari, come cantano i versi di Giorgio Caproni, non solo nei salotti, nelle rare fortezze culturali, nei teatri e nei cabaret, che in questi casi sono come la sala di gestazione di qualche genio canoro, comico, spettacolare.

Villaggio, che stava socialmente in alto, ottanta anni fa quando nacque a Genova insieme con il gemello Piero, il suo opposto ma anche il suo complemento genetico, incominciò tagliando le cravatte del pubblico che andava a sganasciarsi dal ridere allle battute salaci della Compagnia Baistrocchi.

“Gioco bellissimo!!!!”, urlava, scendendo dal palco con le forbici e tranciando le cravatte del pubblico stupefatto. Performance poi trasferita in tv, quando il successo era finalmente arrivato ed esploso nella trasmissione della domenica pomeriggio, nella quale irrompeva il profesor Kranz, con il cilindro e il cammellino di pelouche. Gag straordinarie che fanno lacrimare dal ricordo i settantenni di oggi, che allora ne avevano venti.

Per arrivare a quel ruolo, a quella prima maschera, dopo la quale ne sarebbero arrivate tante, anche quelle tragiche e serie dei grandi film con Fellini e altri grandi registi, Villaggio era partito dal sottoscala di un uffico della Italsider, dove il padre lo aveva piazzato perchè non voleva studiare più.

Italsider allora voleva dire la grande fabbrica dell’acciaio, dodicimila operai, migliaia di impiegati, un mondo che ha nutrito la fantasia comica del nostro festeggiato, facendogli scattare i meccanismi dell’ilarità per sempre. L’impiegato Villaggio Paolo non sopportava il sottoscala e per evadere dall’impiego forzato di una educazione calvinista dura e pura si faceva crescere i capelli fino al punto che i capiufficio erano costretti a licenziarlo, per il suo ribellismo del quale le chiome fluenti erano un segnale.

Un capellone ante litteram, perché siamo all’inizio degli anni Sessanta. Di fronte al padre potente e a un bel taglio di capelli, i capi del personale dell’allora potentissima azienda di Stato lo riassumevano, ma quel cerchio si sarebbe dovuto rompere per forza.
E finalmente scoccò la scintilla tra lui e la grande occasione artistica con il cabaret che lo portò a Milano, dove nacque Kranz e dove erano già in gestazione Fracchia e la sua micidiale poltrona e le angherie dei presidenti, dei capi, dei padroni, i Grand.Uff. Lup. Man, Grande ufficiale lupo mannaro, per sintetizzare in non plus ultra del vertice aziendale.

Villaggio aveva creato una gag eterna e applicabile ovunque, quella dell’impiegato succube e imbranato, imbelle di fronte ai superiori, zimbello dei colleghi e accanto a questo personaggio tutta una galleria di figure anch’esse eterne, Filini, il collega, la signora Pina, una moglie a sua misura e somiglianza.

Insomma, quel filone nato negli uffici della Italsider di via Corsica a Genova, è diventato il primo grande marchio del successo pubblico dell’attore Villaggio e oggi nei giorni del suo ottantesimo compleanno, della festa e della grande riverenza che le istituzioni locali gli dedicano, fa un po’ impressione pensare che la fortuna artistica, il lampo di genio che svela la sua vena sono scoccati in una azienda che non esiste più, in una città dove la forza di quelle industrie di Stato era un architrave di un’economia mista oramai perduta, polverizzata come gli uffici di via Corsica, i sottoscala dei Fracchia di cinquanta anni fa, dove ora ci sono alberghi o negozi cinesi.

E allora, forse pensando a quella città tanto diversa, ma ispiratrice e confrontandola con il giudizio che l’ottuagenario Villaggio ne offre oggi, “mi sembrano degli aristocratici questi genovesi”, si coglie appieno la forza del suo sberleffo, misto di melanconia ironica che ancora lo tiene carico e che lo fa uscire dalla scena del festeggiamento con una battuta su se stesso che riassume tutto: “Cosa provo a compiere ottanta anni: sono stupefatto!”