Gli Andreottiani: Sbardella, Evangelisti, Pomicino, Vitalone, Ciarrapico…

di Redazione Blitz
Pubblicato il 6 Maggio 2013 - 20:55| Aggiornato il 16 Marzo 2023 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – “Andreotti è il regista, il numero dieci, il capitano. Io il centravanti di sfondamento. Evangelisti il libero. Pomicino un tornante che si ingarbuglia da solo. Vitalone, un panchinaro”. Era il 1992, l’anno di Tangentopoli, quando Vittorio Sbardella, detto “lo squalo”, potente signore delle tessere democristiane di Roma, descriveva così la potente squadra andreottiana, allora all’apice del potere. La lotta politica, nella prima Repubblica, non era tanto tra partiti, quanto tra correnti; e la “gens Giulia”, gruppo di uomini legati al sistema di potere di Andreotti, era temuta e rispettata dentro e fuori la democrazia cristiana.

Grazie ai suoi seguaci, politici in primo luogo, ma anche manager pubblici, banchieri, uomini d’affari, Andreotti ha costruito e difeso una cittadella che ha resistito negli anni agli assalti dei nemici e che si è arresa solo all’uragano giudiziario che travolse tutto il partito. Si trattava di un gruppo di vassalli, ciascuno con un suo feudo ben difeso, costruito a suon di tessere, che nella Dc degli anni d’oro erano il cemento con cui edificare le fondamenta del potere.

Pronti a rendere omaggio al loro signore, ma anche, all’occorrenza, a farsi la guerra l’uno con l’altro. L’homo andreottianus non brillava per disinteresse e limpidezza. Spesso il seguace di “zi’ Giulio” si muoveva al confine tra politica e affari. Franco Evangelisti era quello di “a Fra’, che te serve?” frase “cult” dell’intera Tangentopoli, pronunciata dal costruttore Gaetano Caltagirone, grande supporter della corrente.

Ma Evangelisti, negli anni 60, era stato anche il presidente della A.S. Roma, costretto a vendere Giancarlo De Sisti alla Fiorentina per salvare la societa’ dal fallimento. Presidente della squadra capitolina era stato all’inizio degli anni 90 Giuseppe Ciarrapico, altro uomo chiave della corrente. Dino Viola, il presidente dello scudetto, non faceva parte della corrente, ma fu premiato da Andreotti, che aveva capito ben prima di Berlusconi che il calcio porta consensi, con un seggio a Palazzo Madama.

Ma l’andreottiano doc era anche un uomo di mondo, capace, seguendo l’esempio del capo, di mettere d’accordo il diavolo e l’acqua santa. E cosi’, se Andreotti aveva guidato i governi di solidarietà nazionale con l’appoggio del Pci, Ciarrapico, re delle acque minerali di Fiuggi, nella Ciociaria andreottiana, riuscì nell’ardua impresa di far sedere intorno a un tavolo De Benedetti e Berlusconi all’epoca della guerra di Segrate che contrapponeva il gruppo del’Espresso e il proprietario dell’impero televisivo privato.

Oltre che dalle tessere, dal calcio, e dalle partecipazioni statali, il potere degli andreottiani, in anni in cui i cordoni della borsa erano parecchio lenti, veniva anche da un’accorta politica delle uscite. Le finanziarie dirette da Paolo Cirino Pomicino, ministro andreottiano del Bilancio negli ultimi governi prima di Mani Pulite, sono passate alla storia per i vorticosi movimenti di fondi e stanziamenti concessi a enti, associazioni, comitati, società sportive, in un crescendo vertiginoso di milioni e miliardi. La corrente aveva bisogno, come si dice ancora oggi, di radicarsi nel territorio, cioè di acquistare potere nelle grandi città e nelle regioni.

Se Pomicino, nella brigata andreottiana, aveva il compito di contrastare a Napoli l’avanzata degli uomini di Gava, in Sicilia la storia della corrente deve fare i conti con la presenza della mafia. Salvo Lima, a differenza di Andreotti, non potè mai difendersi dalle accuse di aver sostenuto Cosa Nostra. Fu infatti ucciso da una sventagliata di mitra mentre andava a Palermo il 12 marzo del 1992. Secondo i giudici del processo fu ucciso su ordine di Riina come un ex amico che non aveva saputo garantire un risultato favorevole al maxi-processo.

Altro uomo chiave del gruppo degli Andreotti-boys era Claudio Vitalone, recentemente scomparso. Magistrato del Tribunale di Roma in epoca ben anteriore a Mani Pulite, quando era chiamato “il porto delle nebbie” per la facilità con cui le inchieste sui politici svanivano nel nulla, Vitalone era passato alla politica, e aveva seguito Andreotti al governo, come sottosegretario agli Esteri. Fu anche processato con Andreotti, e con lui assolto, nel processo per la morte di Mino Pecorelli.

Andreotti, di fronte alle traversie degli uomini della sua corrente non si è mai scomposto. “Non era lo zoo di cui si parla nel film di Sorrentino”, ha detto recentemente. Una difesa che assolve tutti, anche quelli che, all’ultimo, lo abbandonarono. Come Vittorio Sbardella, il corpulento parlamentare romano che gli voltò le spalle nel ’92 , proprio quando cercava di dare la scalata al Quirinale. O il fedelissimo Franco Evangelisti, che prima di morire disse ai giudici che il generale Dalla Chiesa gli aveva parlato di un memoriale di Aldo Moro, scritto durante la prigionia delle Br, altamente compromettente per Andreotti.