Beppe Grillo e Benito Mussolini. Le analogie fra questo 2013 e quel 1922

di Redazione Blitz
Pubblicato il 1 Marzo 2013 - 16:05| Aggiornato il 17 Agosto 2022 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – Beppe Grillo come Benito Mussolini? Forse il paragone è un po’ azzardato, ma questo 2013 assomiglia molto a quel 1922. In questo 2013 una classe dirigente allo sbando ha regalato al Movimento 5 Stelle un peso elettorale inimmaginabile solo fino a uno-due anni fa. Tuttavia, Grillo, che sarà figura decisiva nella formazione del prossimo governo, ha preso un quarto dei voti alla Camera, dove ha un sesto dei deputati, e meno di un quarto dei voti e di un sesto dei seggi al Senato. Se tutti guardano ai suoi parlamentari e al suo 25%, è perché il restante 75% è diviso, logoro e scarsamente credibile agli occhi della maggioranza degli italiani.

La situazione era molto simile nell’ottobre del 1922, all’alba del fascismo. Aveva solo 35 deputati il Partito Nazionale Fascista, formazione nata il 7 novembre del 1921 dal movimento dei Fasci di Combattimento, “attivi” (è proprio il caso di dirlo) già dal 1919. Quei 35 deputati, fra i quali Benito Mussolini, erano parte dei 105 eletti con i “Blocchi Nazionali“, listone di destra che alle elezioni del 1921, le prime a suffragio universale maschile, aveva preso il 19,7% dei voti.

È il caso di ricordare i voti e i deputati degli altri partiti, che rappresentavano oltre l’80% degli elettori:

Partito Socialista Italiano 1.631.435 voti 24,7% 123 deputati
Partito Popolare Italiano 1.347.305 voti 20,4% 108 deputati
Liberali Democratici 684.855 voti 10,4% 68 deputati
Liberali 470.605 voti 7,1% 43 deputati
Democrazia Sociale 309.191 voti 4,7% 29 deputati
Partito Comunista d’Italia 304.719 voti 4,6% 15 deputati

All’epoca la Camera dei deputati contava 535 componenti. Per arrivare alla maggioranza di 268, servivano alleanze fra forze molto diverse fra loro. Il partito Socialista, fresco di scissione (1921) col partito Comunista d’Italia di Bordiga e Gramsci, aveva la maggioranza relativa dei voti ma gli mancavano i numeri per un governo tutto di sinistra. I socialisti, scissi coi comunisti, erano dilaniati al loro interno fra i rivoluzionari che volevamo una traduzione bolscevica delle premesse create nel biennio rosso, e i riformisti che credevano nella via democratica alla presa del potere.

Se erano logorati e divisi i socialisti, che avrebbero dovuto interpretare la rabbia di un Paese impoverito e spaventato dopo la prima Guerra Mondiale, era logorata e divisa tutta la classe dirigente dell’epoca giolittiana, da vent’anni in sella: erano la “casta” dell’Italia del primo ‘900. Logori e impopolari, a cominciare dallo stesso Giovanni Giolitti, ormai ottantenne.

In meno di 14 mesi si alternarono tre fragili governi, tutti senza i socialisti, tutti molto accondiscendenti, in chiave anti-socialista, verso l’escalation di violenza delle squadracce fasciste. Il social-riformista giolittiano Ivanoe Bonomi e il delfino di Giolitti Luigi Facta furono i piccoli uomini che stesero il tappeto rosso alle camicie nere.

Il 28 ottobre del 1922 Mussolini si riteneva l’unico uomo in grado di governare un Paese gettato nel caos dai suoi fascisti e non solo da loro. Aveva già fatto le prove generali ad agosto quando in due giorni occupò militarmente la città “rossa” di Ancona e il Comune di Milano. Si dice – ma sono numeri mai verificati – che in marcia su Roma c’erano 300.000 squadristi. Tuttavia sarebbe bastato qualche cannone puntato contro di loro per fermarli. Ma il re Vittorio Emanuele III, che fra le altre cose aveva paura di essere scalzato in favore del cugino filofascista Amedeo d’Aosta, non volle dichiarare lo stato d’assedio. E permise a Mussolini una virile passeggiata per i “colli fatali”. Tre giorni dopo, senza che un colpo fosse stato sparato, il re mise nelle mani dell'”uomo della Provvidenza” le redini del governo. Redini che in quelle mani sarebbero rimaste 7.572 giorni.