Il mistero del futuro di Monti. Lascio ma dopo di me chi? Il fattore memorandum

Pubblicato il 11 Luglio 2012 - 12:15 OLTRE 6 MESI FA

ROMA –  “Dice che va via da Palazzo Chigi”, titola scettico il Manifesto: il futuro di Mario Monti resta un’incognita, lui non si espone ma tra silenzi e mezze risposte i dirigenti dei partiti cercano di carpire i segreti della Sfinge. Sono atterriti all’idea di una sua candidatura, perché questo metterebbe a soqquadro il già precario castello di alleanze, con il rischio addirittura di una liquefazione dei poli così come li conosciamo. Sono consapevoli allo stesso tempo che la congiuntura è tutt’altro che passata e la prospettiva che l’Italia debba chiedere aiuto non è affatto remota, con lo spread che non accenna a diminuire in maniera significativa.

L’ultimo segnale captato da una classe politica più rabdomante che analitica, smentirebbe il Monti versione Cincinnato:  il quotidiano Libero ha scoperto che è stato depositato il marchio per la “Lista Monti”. L’autore tiene la bocca cucita, ma il curriculum del professionista della brandizzazione, l’ex manager Celestino Ciocca, non autorizza a pensare che l’abbia fatto come investimento per poi rivenderlo.

Insomma, non si sa mai, “Lista Monti”, il nome del partito del premier è in cassaforte. Alla strana maggioranza non sfugge che il quadro politico è in continua evoluzione. Registra la volontà di Monti di passare la mano (in effetti i dubbi che sarebbe rimasto erano arrivati sulla scorta di non risposte a mezze domande allusive, un retroscena di quelli più balbettanti). Registra anche, la strana maggioranza, l’avvertimento e la premonizione di Monti: quando dice che potremmo chiedere aiuto, che non si sente di escluderlo, dice implicitamente che dovremmo in quel caso sottoscrivere l’impegnativo memorandum d’intesa, quello firmato da Madrid, per intenderci. Significa commissariamento, né più né meno. Significa che le riforme invise non si toccano, che le tasse non si abbassano, che i conti li certificano a Francoforte, che le manovre le fanno a Bruxelles.

Ve li immaginate, con il memorandum pendente sulle loro teste, Bersani promettere in campagna elettorale una revisione della riforma del lavoro o Berlusconi la cancellazione dell’Imu? Ve li immaginate Bersani e Berlusconi rassicurare l’Europa sul mantenimento degli impegni mentre girano nei comizi insieme a Di Pietro o Vendola o Bossi? Monti ha parlato chiaro, per chi vuol capire, in più di un’occasione e lo ha ribadito anche all’uscita dal vertice di Bruxelles mentre escludeva di voler rimanere: “Quale sarà la capacità di governance dell’Italia una volta finita questa breve esperienza?” Se lo domanderanno le istituzioni europee che presiedono agli aiuti e ai salvataggi, se lo chiederanno i mercati per decidere di sottoscrivere titoli di stato italiani. In quel caso, l’unico interlocutore credibile per l’Italia “c’est moi”, sono io sembra avvertire Monti.

La sfida posta ai partiti sta in questa constatazione: di voi non si fidano, si fidano di me. E pazienza se suoni vagamente ricattatorio, se implicitamente metta un’ipoteca sul democratico svolgimento dell’azione politica. I partiti sono in totale fibrillazione, divisi tra la necessità di raccogliere il testimone della credibilità da Monti e l’urgenza di distinguersene per recuperare appeal. Nel Pd, dove Bersani si pone come seria alternativa a Monti, ci si divide tra chi insegue la linea della continuità  (la lettera dei 15 al Corriere sogna un progetto politico “montiano” con almeno 10 anni di respiro) e chi vuole uno strappo laburista, un tratto marcato di discontinuità.

Il problema, per entrambe le fazioni, è come neutralizzare il fattore M: mandare Monti al Quirinale è una soluzione, sta tra le righe della lettera dei 15, tanto più che la strana maggioranza ABC avrebbe pure i numeri per voltarlo. Promoveatur ut amoveatur. Berlusconi, dal canto suo, lascia il partito all’oscuro delle sue iniziative che sta calibrando giorno per giorno: ha in  testa di giocare da solo, come al solito, ragionando su una lista di fedelissimi che faccia a meno di uno stato maggiore che considera vecchio, impresentabile. Lui guarda i suoi sondaggi privati: con Alfano il Pdl è al 10%, con Alfano-Berlusconi sale al 18%, una leadership Berlusconi varrebbe ancora un bel 30%.

Non scompare del tutto, proprio in ragione delle difficoltà dei partiti ad assumere tutte le responsabilità, l’ipotesi che piace all’Udc e che no dispiace nemmeno a Napolitano (nel Pd qualcuno non nasconde antiche diffidenze verso di lui) di proseguire con l’esperimento delle larghe intese, della grande coalizione, con Monti, ovvio, nella plancia di comando. Ma serve che dalla legge elettorale esca un sistema proporzionale che assegni il premio di maggioranza al partito e non alla coalizione vincente. Più difficile sarà formare una coalizione di governo, più  la governabilità sarà un affare di ABC. Come scrive Marcello Sorgi, serve “che chi vince vinca solo un po’ e abbia bisogno degli altri per governare. E’ esattamente il punto in cui si sono arenati i partiti”.