Giorgio Napolitano: “Basta guerra sul referendum e l’Italicum va cambiato”

di Redazione Blitz
Pubblicato il 10 Settembre 2016 - 08:56 OLTRE 6 MESI FA
Giorgio Napolitano (foto Ansa)

Giorgio Napolitano (foto Ansa)

ROMA – “Con quello che succede nel mondo e quello che ha sulle spalle l’Italia, è davvero surreale l’infuriare di una guerra sul referendum costituzionale”. L’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, intervistato da Repubblica,continua a scuotere la testa preoccupato: “Non c’è respiro, non c’è visione ampia, manca lo sguardo lungo e soprattutto scarseggia il senso di responsabilità”.

“Credo si comprenda che mettere (alla cieca) a rischio la continuità e l’azione del governo oggi esponga il Paese a serie incognite in termini di convulsione politica e istituzionale. E la cosa è diventata più grave dopo il referendum britannico, perché molti, e non solo nell’Unione, aspettano di vedere, nonostante i due casi siano clamorosamente diversi, se ci sarà il bis di un rovesciamento di governo in Europa”.

Presidente, cosa la spinge a impegnarsi ancora nel dibattito politico e sul referendum?
“Non solo l’idea di una politica come passione, ma un’inquietudine profonda nel vedere così distruttivamente divisa la politica italiana, così poco presente il senso di responsabilità di fronte a problemi che gravano di molte incognite il futuro del Paese e delle sue giovani generazioni. Non vedo abbastanza respiro, capacità di elevarsi al di là di tante dispute estremizzate e di ritrovarsi in alcune grandi esigenze di impegno comune, come quella a cui ci ha richiamato tragicamente il recente terremoto. È questo che mi inquieta”.

Si possono leggere i suoi interventi quasi come dettati dalla necessità e dall’urgenza di finire un lavoro iniziato, nonostante lei abbia lasciato da un anno e mezzo il Quirinale.
“Mi spinge a far sentire la mia voce anche il tentativo di molti di cancellare il ricordo di quella pressante richiesta rivoltami dopo le ultime elezioni ad accettare il secondo mandato di presidente, e il ricordo del discorso di quel 22 aprile 2013 al Parlamento riunito in cui diedi conto del perché avevo accettato, e a quali condizioni, l’invito quasi unanime a continuare”.

Si è mai pentito di aver accettato il secondo mandato nonostante la stanchezza, la convinzione di voler tornare a casa dopo aver fatto il proprio dovere e l’auspicio di sua moglie a ritagliarvi infine uno spazio privato? Ricordo che il trasloco di libri e vestiti era già stato fatto e non fece mai il viaggio al contrario, a sottolineare come lei considerò il secondo mandato un fatto eccezionale e necessariamente temporaneo.
“Potrei certamente parlare, e ho parlato più volte, di errori e insufficienze della mia lunga vita pubblica. Ma non ho da pentirmi per quella mia scelta avendo sempre concepito la politica con senso del dovere, cioè come responsabilità a cui non ci si può sottrarre”.

Dal suo punto di vista come si è arrivati a questo scontro sulle riforme?
“Noto prima di tutto che si è parlato poco del fatto che le firme per chiedere il referendum le hanno raccolte i fautori del sì mentre quelli del no non hanno avuto la forza di raggiungere il numero minimo. Forse c’è anche da riflettere se fu giusto prevedere nell’apposita mozione parlamentare, con l’accordo del governo Letta/Quagliariello, la facoltà di sottoporre comunque a referendum il testo di riforma che fosse stato approvato”.

Chi è responsabile di quella che lei definisce una guerra?
“È noto che io non ho condiviso la iniziale politicizzazione e personalizzazione del referendum da parte del Presidente del Consiglio, ma specie all’indomani del sia pur lento sforzo di correzione di questo approccio da parte di Renzi, nulla può giustificare la virulenza di una personalizzazione alla rovescia operata dalle più diverse opposizioni facendo del referendum il terreno di un attacco radicale a chi guida il Pd e il governo del Paese”.

Gli oppositori sono molti, anche all’interno del Pd.
“Vedo molte smemoratezze tra politici e tra studiosi che sembrano aver dimenticato tutto il lungo iter di riflessioni e di vani tentativi di rivedere la seconda parte della Costituzione. Peraltro oggi non si tratta solo, nel porvi mano, di recuperare un abnorme ritardo ma di vedere come è ridotto il nostro quadro istituzionale per non averlo riformato prima. In particolare come è stato mortificato il Parlamento, e stravolto il processo legislativo, da pesanti, croniche forzature. Questa riforma ne può consentire il superamento, e rappresenta oggi, specie per questo, una priorità e un’urgenza”.

Oggi però la riforma è sotto accusa perché Renzi avrebbe prevaricato sul Parlamento facendo presentare al governo un progetto di riforma a tutto beneficio dell’esecutivo.
“Non si dicano altre falsità su come è stato avviato quel progetto: sono state le Camere che a schiacciante maggioranza, il 29 maggio 2013 (era allora in carica il governo Letta) hanno “impegnato il governo a presentare alle Camere un disegno di legge costituzionale” di cui la mozione parlamentare aveva indicato finalità e obbiettivi. Renzi ha ricevuto il testimone e non ha dunque con una scelta arbitraria calpestato il Parlamento. Restituiamo allora una misura al confronto sul referendum. E non facciamo prevalere riserve specifiche anche comprensibili sulle novità sostanziali della riforma: ricordiamoci lo spirito che condusse una larghissima maggioranza ad approvare la Carta nell’Assemblea Costituente nonostante su punti non da poco molti avessero forti riserve”.

Proprio l’altro ieri il presidente del consiglio ha chiamato “riforma Napolitano” il testo che sarà sottoposto al referendum. È d’accordo?
“La riforma non è né di Renzi né di Napolitano, ma è quella su cui la maggioranza del Parlamento ha trovato l’intesa. E importanti sono le novità che contiene, nelle quali perciò mi riconosco in coerenza con le tesi da me a lungo sostenute”.

Molti dicono che questa riforma è un’occasione mancata.
“È bocciandola che se ne farebbe un’occasione mancata. Lasciando credere che si potrebbe ripartire da zero e fare meglio”.

Eugenio Scalfari, come molti altri sostiene che non può votare a favore del referendum se prima non si cambia la legge elettorale.
“Pur conoscendo lo spirito costruttivo che muove Eugenio Scalfari, non ho mai creduto alla formula del “combinato disposto”, all’effetto perverso congiunto che scatterebbe tra la riforma costituzionale e l’Italicum”.

Il motivo è una somma di poteri che rischia di non avere contrappesi.
“Di contrappesi vecchi e anche nuovi ce ne sono di assai corposi. Non vedo alcun pericolo autoritario, cosa che riconoscono anche molti esponenti del No, ma a mio avviso è in tutt’altro senso che c’è da riflettere sull’Italicum. Perché rispetto a due anni fa lo scenario politico risulta mutato in Italia come in Europa. Ci sono nuovi partiti, alcuni dei quali in forte ascesa che hanno rotto il gioco di governo tra due schieramenti, con il rischio che vada al ballottaggio previsto dall’Italicum e vinca chi al primo turno ha ricevuto una base troppo scarsa di legittimazione col voto popolare. Si rischia di consegnare il 54% dei seggi a chi al primo turno ha preso molto meno del 40% dei voti. Ritengo che questi e altri aspetti dell’Italicum meritino di essere riconsiderati”.

Fa bene il governo ad aspettare le decisioni della Corte Costituzionale sulla nuova legge elettorale?
“Credo che il governo debba definire il suo atteggiamento indipendentemente dall’attesa del pronunciamento della Consulta. Non basta però rendere ossequio al ruolo del Parlamento dichiarando di essere disposti a tenere conto degli orientamenti che esso esprimerà. Dovrebbe essere interesse di Renzi promuovere una ricognizione tra le forze parlamentari per capire quale possa essere il terreno di incontro per apportare modifiche alla legge elettorale. C’è in questo momento una sola iniziativa sul tappeto, è di esponenti di minoranza del Pd tra i quali Speranza ed è una proposta degna di essere considerata, insieme ad eventuali altre”.

Cambiare la legge elettorale oggi non può sembrare un modo per cercare di fermare il Movimento cinquestelle?
“Non mi sono mai posto il problema di trovare un marchingegno per impedire una possibile vittoria dei Cinquestelle né di escluderli da consultazioni ed eventuali intese per modifiche alla legge elettorale”.

Se si togliesse il ballottaggio verrebbe meno quel meccanismo tanto apprezzato che permette di sapere il vincitore delle elezioni già la sera del voto, come accade per esempio in Francia.
“Un meccanismo che ci dà subito la certezza di chi governerà ma che presenta non poche debolezze ai fini del governo effettivo del Paese, come ci dice quel che sta accadendo in Francia”.

Lei non fa che parlare della crisi dell’Europa, il libro che raccoglie i suoi ultimi discorsi mette al centro proprio l’allarme per il deterioramento di uno spazio comune di pace costruito per mezzo secolo.
“Avverto una forte preoccupazione ma non ho mai voluto cedere alla tentazione di toni catastrofici, non ho mai detto, quasi per principio, che l’Unione è sull’orlo della disintegrazione. Si è costruito nel corso dei decenni qualcosa di molto complesso e sì è andati in molti campi abbastanza avanti sulla via di una vera e propria compenetrazione tra economie, Stati, società nel quadro dell’Unione europea. Tanto che stiamo vedendo attraverso le convulsioni seguite alla Brexit in Inghilterra quanto sia ormai difficile per una parte staccarsi dal tutto. Però condivido una preoccupazione molto seria: c’è qualcosa di più di un vento euroscettico o euro distruttivo che circola da noi. Siamo davanti a un’ondata di posizioni populiste, di “politica della rabbia” e di furia iconoclasta che non soffia solo in Europa ma anche negli Stati Uniti”.

Cosa si dovrebbe fare?
“Nel proprio ambito l’Europa, i governi e le istituzioni che ne hanno la responsabilità e le figure politiche che ci credono devono non tendere all’attendismo, ma andare avanti, avere il coraggio di posizioni innovative e anche di richiami forti a elementi di coesione, di disciplina, in sostanza di riaffermazione dell’autorità delle norme e delle istituzioni comuni”.

In che senso?
“Se si pensa che oggi l’Europa sta con il fiato sospeso in vista delle elezioni presidenziali in Austria o di un referendum di dubbia ammissibilità in Ungheria, ci si rende conto del punto di gravità cui la situazione è giunta”.

Le ultime elezioni in Germania hanno suonato l’ennesimo campanello d’allarme per l’avanzata di forze xenofobe e populiste.
“Ci sono elementi largamente previsti ma anche imprevedibili in questo voto tedesco. Per esempio il clamoroso passaggio di voti dal partito ex comunista dell’Est – la Linke – alla formazione più nazionalista che sia nata nella Germania unificata. Ma vedo il positivo nella reazione della Cancelliera Merkel che non ha fatto marcia indietro e reagisce confermando piuttosto che rinnegare la sua linea sui profughi. Le difficoltà sono serie e dovunque, ma conta moltissimo ogni espressione forte di volontà politica da parte di quanti hanno a cuore l’Europa”.

I rapporti tra Italia e Germania sembravano aver toccato il punto più basso nello scontro sulla disciplina di bilancio, tanto che lei come ultimo atto prima di lasciare il Quirinale si preoccupò di organizzare a Torino un incontro tra i presidenti dei due Paesi insieme ai rappresentanti della società civile per provare a ricucire un dialogo. Come vede la situazione ora?
“Penso siano stati fatti notevoli passi avanti cercando di far dialogare non solo le leadership di governo ma anche le forze che rappresentano l’economia, la cultura e la società civile dei due paesi. Dal punto di vista del rapporto tra i due governi c’è stato un momento di notevole tensione al Consiglio europeo dello scorso dicembre anche per accenti del governo italiano che non considerai persuasivi, ma poi si è trovato il modo di operare un positivo riequilibrio”.

Prima di lasciare la Presidenza lei espresse preoccupazione per un’anacronistica riproposizione di comportamenti da guerra fredda e auspicò un ritorno della collaborazione con la Russia per affrontare le sfide che abbiamo davanti, dall’Isis, al terrorismo alla Siria. Sono passati due anni ma se guardiamo al gelo di questi giorni tra Obama e Putin dobbiamo concludere che passi avanti non ne sono stati fatti.
“Per capire la Russia mi rifaccio all’analisi più convincente che abbia letto, contenuta in un’intervista di Repubblica a Vittorio Strada pubblicata due mesi fa: dopo la caduta del muro di Berlino e il crollo dell’Unione Sovietica l’Occidente ha alimentato tra i russi frustrazioni e sospetti che hanno costituito la base per politiche reattive e di rivalsa, anche condannabili, decise da Putin, ma sorrette da forte consenso interno. La crisi in Ucraina con cui si è ancora alle prese non è nata con l’annessione della Crimea ma prima, e posso dirlo con personale cognizione di causa, con la deliberata esclusione della Russia da ogni consultazione in vista dell’accordo di associazione tra Ucraina e Unione Europea”.

Crede che il futuro spingerà a una ricomposizione?
“Quanto a Obama e Putin, non c’è dubbio sulla mancanza di feeling tra i due Presidenti, ma c’è stata al tempo stesso nel corso dell’ultimo anno una collaborazione crescente tra Lavrov e Kerry. La verità è che la drammatica necessità di convergenze e intese tra Russia e America su più fronti, quanto mai cruciali, è tale da rendere insostenibili e contraddittori gli atteggiamenti da ritorno alla guerra fredda. Questo è il mondo che ci circonda, dominato da sfide assai ardue per l’Europa e per l’Italia, così da far apparire surreale e miope uno scontro qui così virulento sulla riforma costituzionale. È tempo di uscire da questo assurdo stato di belligeranza”.