Lavoro. Fornero la “costruttivista”: meno tasse ai buoni, non a chi produce

Pubblicato il 7 Settembre 2012 - 09:05 OLTRE 6 MESI FA
Elsa Fornero con Mario Monti

ROMA – Riduzione del cuneo fiscale e  rilancio della produttività: il ministro Fornero non perde occasione per rivendicare una strategia culturale, prima che politica, per colpire la flessibilità cattiva in entrata, diminuire la precarietà, incentivare uno sviluppo ordinato e ispirato a migliori relazioni industriali. Genericamente viene accostata, come spesso lascia intendere lei stessa, al “modello tedesco”, dove decisiva è la partecipazione  dei sindacati nei consigli di sorveglianza delle aziende medio-grandi.

Ma, è il quesito, la realtà del lavoro così com’è, è davvero così malleabile, così addomesticabile, da poter essere forgiata secondo i suoi principi? “Studieremo entrambi i provvedimenti”, detassazione del salario di produttività e riduzione del cuneo fiscale, “si tratta di trovare risorse, e nessuno si aspetti che saranno su vasta scala”. Ancora stamattina (7 settembre) il ministro Fornero, lo ha ribadito in un’intervista a Prima di tutto, su Rai Radio 1, precisando di essere “personalmente abbastanza attaccata all’idea di una riduzione del cuneo fiscale legata a buone relazioni di lavoro. Però – ha aggiunto – sono aperta, questa è solo una delle ipotesi”.

Già a Rimini al Meeting di CL e poi in altre interviste Fornero ha indicato le priorità laddove le risorse limitate costringono a difficili scelte e dolorose rinunce. Per esempio, dovendo scegliere, meglio diminuire il cuneo fiscale (cioè la differenza tra costo per l’azienda ed effettiva retribuzione in busta paga del lavoratore) che incentivare il merito. Meglio cioè premiare le buone relazioni industriali, per esempio, per chi assuma alte percentuali di donne, o offra un bilancio sociale migliore, con migliori politiche gestionali, bassa conflittualità, assenza di discriminazioni. Risorse, quindi, negate, per esempio, per defiscalizzare i salari di produttività a imprese che creano in questo modo ricchezza e opportunità lavorative.

Il quotidiano La Repubblica (solitamente ben disposto verso il governo) nell’intervento di Alessandro De Nicola contesta a Fornero un eccesso di ideologia, a scapito di un più sano pragmatismo. Concede a Fornero che è troppo presto per verificare la bontà o meno di certi provvedimenti. Ci vuole tempo per analizzare gli effetti della maggiore rigidità nella flessibilità in entrata: quello che è certo è che i contratti a termine non vengono rinnovati. Colpa della congiuntura o colpa delle riforme, per ora non va. Anche se, “l’obbligo di trasformare i lavoratori a tempo indeterminato dopo 36 mesi di impiego presso la stessa impresa  è stato inserito dal ministro Damiano a partire dal 1 gennaio 2008” (Bocchieri su Libero). Un tempo sufficiente a una verifica empirica: è emerso che l’aumento della occupazione temporanea non si traduce in aumento della occupazione complessiva e che due contratti su tre attivati sono a tempo determinato.

La vera flessibilità, quella utile a produrre meglio e con più rapidità, esiste già nei contratti firmati in azienda. Ci sono i casi menzionati da Libero di Heineken, Marzotto, Adler, e Tesmec: accordi di secondo livello, gestione dei piani produttivi concordati. In sostanza: la flessibilità viene remunerata in aggiunta al contratto collettivo. Ma per Fornero, non è questa forma virtuosa, riuscita di competitività raggiunta che merita di essere sostenuta, magari con incentivi fiscali. De Nicola la chiama “costruttivista”, crede cioè che norme presuntivamente orientate a scegliere quei mezzi per tali fini debbano prevalere sulla libera contrattazione tra le parti, “affidarsi alla loro libera volontà, è una scelta residuale”.

Vuol dire che la rigidità in merito alle regole più severe sui contratti di lavoro in entrata, riflette una rigidità metodologica, giustificabile forse in ambito accademico ma non per il mestiere di politico? Alcuni segnali non fanno ben sperare. La riforma, le va riconosciuto, non basta da sola a creare nuovi posti di lavoro, né il governo, può, come nel caso dell’Alcoa, garantire a scatola chiusa che ogni posto di lavoro sarà salvaguardato. Però, è difficile perseguire risultati con il paraocchi della “moralità” o del bene comune astrattamente inteso. “Le cose semplici, tipo il taglio dell’Irap o dell’Irpef, sembrano essere aborrite dalla classe politica-burocratica del paese, la quale sembra voler complicare le leggi quasi a voler mantenere un npotere di mediazione e di scambio che verrebbe ridotto da riduzioni generalizzate dell’imposizione fiscale” (De Nicola).