M5s torna alla carica con la guerra ai vitalizi. Ma non erano già aboliti?

di redazione Blitz
Pubblicato il 28 Febbraio 2017 - 12:08 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – Via la casta e i suoi privilegi che sembrano arrivare direttamente da retaggi feudali: il Movimento 5 Stelle imbraccia l’arma della guerra ai vitalizi un po’ per toglierla dalle mani di Matteo Renzi e un po’ per sgomberare il campo da nuovi intoppi nel caso in cui dovesse mai ritornare in campo l’opzione del voto anticipato. Ma non erano stati già aboliti? 

“E’ una balla quando vi dicono che i vitalizi sono stati eliminati: il sistema pensionistico dei parlamentari è un vitalizio mascherato, un privilegio medievale che noi vogliamo abolire con 20 righe ed una semplice delibera” annuncia Luigi Di Maio sventolando due fogli che contengono la proposta di delibera.

Tre articoli che stabiliscono, senza il bisogno di approvare una proposta di legge, che il trattamento previdenziale dei parlamentari si conformi in tutto e per tutto alle riforme Dini e Fornero che hanno modificato le pensioni del resto degli italiani, che i loro contributi confluiscano ai fondi previdenziali a cui erano iscritti prima di essere eletti, e che le nuove regole entrino subito in vigore per essere applicate anche ai parlamentari in carica nella XVII legislatura, vale a dire quella in corso.

Ma la domanda sorge spontanea: i vitalizi sono di fatto aboliti con la riforma entrata in vigore il primo gennaio 2012. Sul piano tecnico non si capisce come farebbe l’Inps, se non in presenza di una legge appunto, ad accettare i contributi che finora i parlamentari hanno versato nella casse di Montecitorio e Palazzo Madama?

Lo spiega bene Diodato Pirone sul quotidiano Il Messaggero:

La proposta dei 5Stelle in realtà sembra l’emblema di una politica fatta soprattutto di propaganda e di storytelling e di poca sostanza.

​Tanto è vero che, di fatto, i vitalizi dei parlamentari sono stati aboliti dal primo gennaio del 2012. Da quella data i contributi di deputati e senatori vengono calcolati con il sistema contributivo con lievissime differenze (che peraltro favoriscono chi va in pensione intorno i 70 anni) rispetto ai coefficienti in vigore per tutti gli italiani “normali”. Il vantaggio principale che mantengono i parlamentari è quello di ricevere la loro pensione a 65 anni (o a 60 anni se hanno 10 anni di contributi) e dunque un po’ prima dei circa 67 in vigore per i lavoratori Inps.

​Si tratta di differenze lievi rispetto ai trattamenti Inps, molto più lievi di quelle che riguardano altre categorie, a partire dai giornalisti. E anzi a dirla tutta i parlamentari giovani hanno persino uno svantaggio rispetto agli altri lavoratori: rischiano di perdere i contributi versati se non restano parlamentari per almeno 4 anni 6 mesi e un giorno. Una perdita consistente perché i contributi dei parlamentari ammontano a 800 euro al mese che versati per quattro anni e mezzo (54 mesi) superano i 43.000 euro. Per completezza d’informazione va detto che i lavoratori dipendenti perdono i loro contributi con versamenti inferiori ai 20 anni ma ottengono una pensione sociale.

​In fatto di ingiustizie previdenziali delle Camere, poi, quella più eclatante – ma evidentemente non redditizia sul fronte elettorale – non riguarda il trattamento dei parlamentari ma quello dei dipendenti di Camera e Senato. Quest’anno la Camera verserà 250 milioni circa per le pensioni dei dipendenti e solo 150 milioni per quelle dei politici. Non solo. I dipendenti di Montecitorio versano circa 75 milioni di contributi e pertanto è come se ricevessero 3,5 euro per ogni euro versato. Un rapporto incredibilmente squilibrato.

I lavoratori dipendenti Inps, per dire, versano un euro e ricevono 1,05 (attenzione alla virgola, 1,05, non uno e mezzo) sotto forma di pensioni. Ma su questo punto nessun partito ha mai proposto nulla, ad eccezione della norma del governo Letta che per tre anni ha imposto una supertassa sulle pensioni superiori ai 90.000 euro annui che sono molto frequenti fra i dipendenti delle Camere.