Pomigliano: la vittoria monca degli opposti estremismi

Pubblicato il 23 Giugno 2010 - 15:06| Aggiornato il 21 Ottobre 2010 OLTRE 6 MESI FA

Il “Sì” ha vinto ma quel che sarà di Pomigliano non si sa, nessuno davvero lo sa, neanche Marchionne. Tremano le parole in bocca al ministro Sacconi quando dice: “Non voglio neanche immaginare che la Fiat non mantenga il suo impegno”. Frenetica quanto venata d’angoscia è la rassicurazione del segretario della Cisl Bonanni: “Ho parlato con Marchionne, mi ha detto che era contento…”. Arido di certezze e perfino venato da una punta di acidità è l’unico comunicato ufficiale della Fiat: “Collaboreremo con chi si è assunto la responsabilità dell’accordo”. Dunque, referendum è stato, la maggioranza degli operai ha accettato le condizioni della Fiat, tutto chiaro e fatto allora? No, tutto incerto. La Fiat può accontentarsi di quel 62 per cento di “Sì” e di quel che vale e annuncia in termini di “governabilità” della fabbrica.

Può quindi portare a Pomigliano i 700 milioni di investimento, la produzione della Panda oggi fabbricata in Polonia e le nuove regole di lavoro. Oppure può ritenersi poco garantita in una fabbrica dove duemila operai su poco meno di seimila hanno votato “No”. E può quindi decidere di “stanare” quei duemila: nuova società, nuovo contratto per ogni diperndente. Nel contratto si firma, con nome e cognome, quel “Sì” che eventualmente non è stato dato nell’urna del referendum. Altrimenti non si viene riassunti dalla nuova società. Oppure ancora la Fiat può rinunciare, giudicare troppo alto il rischio e abbandonare lo stabilimento di Pomigliano. Un costo politico enorme per la Fiat, Pomigliano dopo Termini Imerese, cioè addio all’Italia, tensioni sociali, tensioni con il governo. Cosa farci con quel 62 e passa per cento di “Sì” la Fiat davvero non sa.

La Fiat con in tasca qualcosa che potrebbe domani essere una “vittoria di Pirro”, gli operai di Pomigliano senza la certezza che la storia finisca in gloria e stipendio, Cisl e Uil e perfino il governo tarantolati dall’ansia, la Fiom tentata, quasi spinta da se stessa e dal 30 e passa per cento di “No” alla grigia e fosca prospettiva di fare di Pomigliano un “Vietnam sindacale”, la Cgil e il Pd sospesi a mezz’aria nel predicare: “Pomigliano sì, ma sia un’eccezione, non si estenda ad altre fabbriche e aziende”. Predica impossibile, impotente, incoerente. Più che predica, supplica. Chi sono i “padri” di questa vittoria di nessuno, vittoria monca prima ancora che mutilata? Conviene ricorrere, viene in mente una formula antica, elaborata in altri contesti: gli “opposti estremismi”. Sono loro i genitori del pasticcio Pomigliano.

Estremismo della Fiom che non tutta e non giusta l’ha raccontata. Non quando si è opposta alle limitazioni del diritto di sciopero e al non pagamento generalizzato dei giorni di malattia quale deterrente contro l’assentesismo. L’estremismo della Fiom c’è stato, violento e nocivo, quando non ha detto sì ai 18 turni, alla produzione senza interruzioni. Per settimane la Fiom ha giocato a porre ostacoli, non condizioni. Estremismo della Fiat che, di fronte all’ostacolo, ha acceso i motori del bulldozer: i limiti allo sciopero e la malattia non pagata sono la causa, la ragione di quei duemila “No”. Non la Fiom, ma la Fiat li ha generati nella sua “campagna elettorale” per il “Sì” nel referendum.

Opposti estremismi cui si è sommato, aggiunto, quello del governo che, entusiasta e incauto, ha fatto di Pomigliano non solo una bandiera ma anche l’esempio da estendere ovunque. Buon ultimo ma non assente, l’estremismo della sinistra radicale che non stava e non sta nella pelle all’idea di fare di Pomigliano la Fort Alamo rossa della resistenza ai “padroni”. Senno di poi questa fotografia degli opposti estremismi? Purtroppo no, poteva, doveva essere senno di prima. Era tutto evidente, chiaro e nitido: la “foto” si poteva scattare prima, ma nessuno ha voluto farlo. E questa non volontà è stato l’estremismo peggiore, quello della volontà e della ragione insieme, entrambe in sciopero e in malattia.