Sentenza su Raggi “ineleggibile”, codice M5S e ricorso pd: perché non c’è nessun vincitore

di Edoardo Greco
Pubblicato il 19 Gennaio 2017 - 06:10 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – Non ha vinto nessuno: né Virginia Raggi, né il codice M5S, né l’avvocato pd che ha fatto ricorso. La sentenza del tribunale civile di Roma, che ha respinto il ricorso di Venerando Monello sull’ineleggibilità del sindaco pentastellato di Roma non entra nel merito della costituzionalità del contratto che il Movimento 5 Stelle di “Giuseppe Piero Grillo” e “Davide Federico Dante Casaleggio” ha fatto firmare a chi è stato eletto (sindaco, consigliere o parlamentare) nelle sue file. Contratto che costringerebbe gli infedeli – cioè quelli che abbandonano M5S – a pagare una penale di 150 mila euro. Clicca qui e scarica il testo integrale della sentenza in Pdf

Rimane aperta la questione sulla legittimità costituzionale del “codice M5S”, che potrebbe essere sollevata in futuro da un eventuale ricorso di uno dei parlamentari, europarlamentari o sindaci 5 Stelle usciti dal partito. Così come non è risolta la questione del guinzaglio lungo o corto del primo sindaco donna di Roma, cioè se riuscirà mai a governare la Capitale in relativa autonomia o se dovrà recitare un copione scritto da ristrette “cabine di regia” pentastellate.

La sentenza si ferma un passo prima: non stabilisce se il contratto M5S sia valido o legittimo. Respinge la richiesta dell’avvocato Monello (che un refuso nelle ultime righe del testo trasforma in “Monello Vagabondo“) perché le cause di ineleggibilità di un cittadino italiano devono rimanere eccezioni alla regola (tutti hanno diritto ad essere eletti) ben delimitate dalla legge (la 267 del 2000) e l’aver firmato un contratto col proprio partito non rientra fra queste.

Una volta stabilito che la Raggi è eleggibile i giudici romani (un collegio guidato dalla presidente di sezione Franca Mangano, estensore Chiara Carmela Palermo e giudice a latere Vincenzo Vitalone) hanno ritenuto inutile pronunciarsi sulla legittimità o validità del contratto che sarebbe stato il motivo dell’ineleggibità dell’attuale sindaco capitolino.

Anche perché il legale del Pd, hanno stabilito i magistrati, non aveva titoli per ricorrere contro quel contratto: non essendo lui un iscritto ai 5 Stelle quel “codice” non costituisce nessun limite all’esercizio delle sue libertà democratiche.

L’avvocato Monello aveva chiesto che la Raggi fosse dichiarata ineleggibile, perché costretta a governare sulla base di quel contratto, da considerarsi nullo e incostituzionale. I giudici gli hanno risposto che sebbene sia un diritto di “qualsiasi cittadino elettore” fare ricorso se ritiene che il proprio sindaco sia ineleggibile, la firma su un contratto come quello preparato da M5S per i suoi rappresentanti non rientra fra le cause di ineleggibilità. Si legge nella sentenza:

l’eleggibilità è la regola, ineggibilità invece l’eccezione […] Le cause limitative del diritto, costituzionalmente garantito, all’elettorato passivo sono norme di stretta interpretazione (sentenze n. 46 del 1969, n.38 del 1971, n. 166 del 1972, n. 129 del 1975, n. 280 del 1992, n. 295 del 1994, n. 364 del 1996)”.

L’art. 60, comma 1, del d.lgs. 267 del 200 elenca i casi di ineleggibilità alla carica di sindaco, presidente della provincia, consigliere comunale, consigliere metropolitano, provinciale e circoscrizionale. Le situazioni che possono giustificare la limitazione dell’elettorato passivo sono riconducibili a ipotesi che rischiano di condizionare la libertà di manifestazione del voto da parte degli elettori ovvero quelle che rischiano di produrre conflitti di interessi nell’esercizio della carica elettiva.”

“La domanda principale (del ricorso, ndr) va quindi rigettata non ricorrendo alcuna delle ipotesi di ineleggibilità tassativamente previste dalla legge né essendo ipotizzabile una interpretazione estensiva ed analogica delle stesse”.

Se la Raggi è eleggibile, l’avvocato Monello, iscritto al Partito democratico, non ha nessun titolo per sollevare la questione della legittimità del contratto che il sindaco ha firmato con i vertici del Movimento 5 Stelle:

“Il ricorrente – in quanto soggetto estraneo al Movimento 5 Stelle e non sottoscrittore dell’accordo – non è portatore di un concreto interesse ad agire, giacché dalla rimozione del vincolo non potrebbe derivare alcun effetto nella sua sfera giuridica (id est – ed in termini positivi – il ricorrente non ha assolto all’onere di allegazione di una incidenza negativa nella di lui sfera giuridica del codice in parola). Inoltre, poiché la domanda di ineleggibilità, nella prospettazione del ricorrente, ha il suo presupposto nella nullità del patto sottoscritto da Virginia Raggi, il rigetto della domanda principale rende ultronea la pronuncia sulla domanda di nullità dell’accordo in questione, non essendo la pronunzia richiesta in ogni caso rilevante ai fini della decisione della lite”.

L’avvocato Monello dovrà pagare ai legali di Raggi, Grillo e Casaleggio oltre 15mila euro di spese processuali. E ha evitato un procedimento per calunnia solo perché la Raggi l’ha presentato “tardivamente”.

Ma il sindaco non ha troppo da esultare, e neanche i 5 Stelle. Sul blog di Grillo la Raggi ha scritto “Tanto rumore per nulla”. M5S sbaglia invece a prendere la sentenza romana come una legittimazione della propria anomalia, quella di un partito-azienda. Scrivono Sara Menafra e Sara Piras sul Messaggero:

Anche se il ricorso della Cirinnà non ha prodotto risultati, il problema della legittimità del contratto resta. E potrebbe ben presto presentarsi con nuovi ricorsi, stavolta da parte di soggetti realmente legittimati ad avanzarli come gli eurodeputati che hanno appena lasciato il movimento. La sentenza di ieri, infatti, non si applica all’accordo firmato dagli eurocandidati nel 2014. Lì, la penale compare non in caso di possibile danno d’immagine, ma in caso di mancate dimissioni. E infatti i garanti Grillo e Casaleggio proprio una settimana fa sul blog hanno prima ricordato quella penale ai fuoriusciti Marco Affronte e Marco Zanni, quindi hanno corretto il post parlando delle dimissioni come regola etica e non tassativa.

«Gravi inadempienze al rispetto del codice di comportamento prevedono la richiesta di pagamento di 250.000 euro prevista dal Codice comportamento – si legge nella seconda versione del post -che tutti gli europarlamentari eletti del MoVimento 5 Stelle hanno firmato e hanno il dovere etico e morale di rispettare». La parolina magica che viene aggiunta è etica, morale. In ogni caso, il Movimento rivendica piena autonomia ed è pronto a rispondere a tono ricordando che esiste un codice etico anche nel Pd, firmato nel 2008, che all’articolo 5 prevede l’obbligo di dimissioni e le condizioni ostative alla candidatura in determinate condizioni di incompatibilità o in precisi casi giudiziari.

L’impressione è che ci sarà un estenuante braccio di ferro fra il Movimento e il sindaco della Capitale. Simone Canettieri sul Messaggero spiega come i vertici di M5S vogliano vagliare preventivamente ogni decisione della Raggi. Con un “codice” e un “sistema operativo” ancora più stringente:

Il codice, studiato da Roberta Lombardi e da Gianroberto Casaleggio, non contempla solo la maxi-multa da 150mila euro in caso di danni d’immagine. Ma prevede, appunto, che gli atti importanti della sindaca debbano essere condivisi prima di essere adottati con lo staff grillino e con i Garanti, Grillo e Casaleggio jr. Circostanza mai avvenuta. Tanto che – eccetto per il no alle olimpiadi – Raggi ha sempre agito di testa propria. Entrando in conflitto con i parlamentari che dovevano vigilare sul Campidoglio. Esperienza archiviata in estate, con polemiche e travasi di bile, con le dimissioni di gruppo del mini direttorio. Dimissioni andate di pari passo con le scelte, foriere di guai ancora tutti da risolvere, sulle nomine: dal ruolo di Salvatore Romeo a quello di Raffaele Marra che promosse il fratello, Renato, a capo della direzione turismo creata ad hoc e in barba ad altri cinque candidati che puntavano a quella casella. «Ecco – si sfogò tempo fa la Lombardi – se Raggi avesse rispettato il contratto queste mosse non le avrebbe mai potute compiere, e invece…».

È il sistema operativo «il nostro cerchio magico», ha osservato Di Maio replicando alla senatrice Elisa Bulgarelli che, nei giorni scorsi, si era scagliata contro l’associazione Rousseau. Cosa prevede? Riservata nella fase di avvio ai consiglieri eletti nelle istituzioni locali, consentirà, appunto, di condividere gli atti e «le pratiche migliori in corso nei comuni e nelle regioni italiane», ad opera dei rappresentanti M5S, che siano alla guida del governo locale o all’opposizione.

In conferenza stampa il nome di Virginia non è mai uscito, ma come esempio di buona amministrazione è stato fatto quello di Livorno. Letta controluce la mossa guarda al Campidoglio, l’amministrazione che più fa preoccupare Grillo e Casaleggio in ottica di un approdo a Palazzo Chigi. Con questo nuovo strumento verranno inseriti nel cervellone della piattaforma tutti gli atti. Anche – e qui c’è la stretta pensata per evitare nuovi casi come quelli visti in Comune – quelli che devono essere approvati. Ciò significa che certe delibere e ordinanze finite nel mirino dell’Anac e della Procura a Roma, d’ora in poi saranno vagliate dalla nuova piattaforma prima di essere attuati. Oltre che subito dopo. Da qui la battuta se «ci fosse stato Rousseau non sarebbe esistito Marra».

E il paradosso della conferenza stampa è stato proprio questo: presentare un nuovo strumento per le amministrazioni locali senza mai citare quella più in crisi. Che ieri ha tirato comunque un sospiro di sollievo dopo la sentenza del tribunale. Ma adesso per Virginia c’è un contratto da rispettare «alla lettera» e un cervellone da alimentare il più possibile. «In attesa – è il ragionamento della parte più ortodossa dei grillini – che la Procura le presenti il conto per gli errori compiuti in questi sei mesi».