Libia, “La fine per Gheddafi arriverà dalla ribellione delle tribù”

Pubblicato il 22 Febbraio 2011 - 11:24 OLTRE 6 MESI FA

Muhammar Gheddafi

La fine per Gheddafi si chiama tribù: Warfala, Zintan, Rojahan, Orfella, Riaina, al Farjane, al Zuwayya, Tuareg. Le stesse che nel 1911 affrontarono gli italiani durante la guerra di Libia.

Due città della Cirenaica sono nelle mani dei manifestanti: Bengasi, il capoluogo della regione, e Sirte, la città natale del rais. Anche il sud del paese sarebbe ormai libero. E ieri anche la capitale Tripoli è stata attraversata dalla rivolta, repressa nel sangue con i raid aerei ordinati dal Colonnello.

Ma quattro delle principali tribù hanno cominciato a marciare sulla capitale, assestando, con la loro defezione, un durissimo colpo al regime, già abbandonato dall’esercito. Secondo Al Jazira, i Tuareg, che in Libia sono mezzo milione, avrebbero accettato la “chiamata alle armi” della tribù Warfala, che conta oltre un milione di abitanti nel paese. Inoltre uno dei leader Warfala avrebbe dichiarato che Gheddafi “non è più un fratello” e deve lasciare la Libia. E il capo della tribù al Zuwayya del deserto orientale avrebbe minacciato di interrompere le esportazioni di greggio se le autorità non porranno fine alla repressione. Domenica anche la tribù degli Orfella, che conta novantamila persone, ha deciso di sostenere la rivolta.

Per Angelo Del Boca, uno dei massimi esperti del colonialismo italiano e della storia della Libia, “Se in Tripolitania queste tribù si associano alla rivolta, la fine è vicina. Per Gheddafi e per tutta la sua famiglia. “Perchè non è pensabile una successione da parte del secondogenito Saif Al Islam. Il più grande errore interno di Gheddafi – continua Del Boca al Fatto Quotidiano– è stato sottovalutare la capacità di mobilitazione dei clan che, per 40 anni, è riuscito a tenere a bada. Ma ora che il contagio della rivoluzione maghrebina è arrivato, torneranno prepotenti le divisioni interne che si uniranno con un obiettivo: far cadere Gheddafi. Che cadrà per la rivolta delle tribù”. E’ qui, secondo lo studioso, la differenza specifica della Libia rispetto a Egitto e Tunisia.

“In Libia – spiega Del Boca – non si può parlare veramente di rivolta del pane. Il reddito procapite è di circa 15mila euro l’anno, quindi più alto degli altri paesi del Maghreb che sono insorti. Il petrolio, di cui il paese è il secondo produttore africano dopo la Nigeria, ha garantito una prosperità relativa e i prodotti di prima necessità che hanno reso sopportabile, per decenni, la vita delle persone. Ricordo che il traduttore libico che mi era stato assegnato dal ministero dell’Informazione, durante un mio viaggio, voleva venire a vivere in Italia. Aveva quattro figli. Facemmo i conti e non gli conveniva: viveva meglio in Libia. Nonostante le condizioni economiche delle persone, il contagio però era inevitabile. E probabilmente è stato guidato anche dall’estero”.

La tesi del complotto straniero è stata sostenuta anche da Saif Al Islam, che nel suo discorso in televisione domenica sera ha ricordato l’importanza dei clan e delle tribù nel paese, che rendono difficile prevedere l’esito della rivolta o capire chi potrebbe guidare una possibile transizione. “Si è parlato di Abdelsalam Jallud, ex braccio destro di Gheddafi, che però appartiene al clan Maghariba, rivale della tribù di appartenenza del raìs, i Qadhadfa – dice Del Boca. Ma tenderei ad escludere questo nome, anche perchè si tratta di un uomo anziano. Senza dubbio, una volta che si era intuita la potenzialità della rivolta in Libia, gli oppositori esuli a Londra, Ginevra o California sono intervenuti. E ci sono personalità di rilievo, fuori dalla Libia, che possono influenzare il dopo Gheddafi. Come l’avvocato Anwar Fekini, che vive in California ed è nipote dell’eroe della resistenza libica del 1911 Mohammed Fekini. Di certo l’Occidente ora non può avere un interlocutore privilegiato. Gli occidentali, oltre a vergognarsi come nel caso dell’Italia che ha firmato pochi anni fa un trattato con un dittatore, faticheranno a guidare la transizione”.

Anche perché  Muammar Gheddafi è diverso da Mubarak o Ben Ali. “Gheddafi – dice lo studioso – è un personaggio poliedrico e complesso. È un criminale, certo. Ma anche un rivoluzionario che ha garantito un’unità nazionale che ora può essere compromessa. In ogni caso è stato capace di ingraziarsi quelli che un tempo gli furono nemici. La sua svolta filo-occidentale è partita dopo i bombardamenti americani su Tripoli nel 1986. E si consolidò nel 1996 quando represse la rivolta islamista in Cirenaica. Il cambiamento radicale fu nel 2000, quando ammise il fallimento dell’unità panarabica e si adoperò per l’Unione Africana, di cui è stato presidente. Dal panarabismo all’unità africana: non fu un cambiamento da poco. Infine, nel 2006 gli Usa lo hanno depennato dalla black list delle canaglie. È insomma un campione di metamorfosi, un dittatore che ha in spregio i diritti umani ma non un fantoccio. Forte del petrolio, in politica estera si è reinventato più volte. I suoi errori li ha compiuti all’interno e ora ne pagherà il prezzo”.

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