Al Baghdadi? Un po’ Califfo, un po’ Padrino: Gianni Riotta racconta l’Isis

di Redazione Blitz
Pubblicato il 25 Agosto 2014 - 15:56 OLTRE 6 MESI FA
Al Baghdadi? Un po' Califfo, un po' Padrino: Gianni Riotta racconta l'Isis

Al Baghdadi? Un po’ Califfo, un po’ Padrino: Gianni Riotta racconta l’Isis

ROMA – Un po’ mafia un po’ shari’a: così Gianni Riotta descrive il “Califfato” dell’Isis guidato dal misterioso Abu Bakr Al Baghdadi, “alias Abu Duaa, alias Dottor Ibrahim Awwad Ibrahim Al Badri Al Samarrai”. Un califfo, che, sottolinea Riotta, era stato sottovalutato da Obama, che a gennaio scorso aveva paragonato l’Isis a una “squadra di basket delle riserve di un college, mettersi la maglia dei Lakers non li trasforma in Kobe Bryant”.

E invece quelli dell’Isis hanno perculato Assad, si sono impadroniti di pozzi di petrolio e di banche, controllano le dighe e impongono il pizzo, fanno funzionare le poste e affiancano all’applicazione spietata della sha’aria un sistema di welfare che si rivela molto efficace in una zona provata da anni di guerre e di amministrazioni corrotte e inefficienti.

Il presidente Barack Obama non prendeva troppo sul serio i miliziani fondamentalisti dell’Isis, visto che, ancora lo scorso gennaio, ironizzava dalle colonne del settimanale chic «New Yorker» «Isis è come la squadra di basket delle riserve di un college, mettersi la maglia dei Lakers non li trasforma in Kobe Bryant».

Immagine brillante ma infelice, visto che in pochi mesi la squadra di scartine del basket dell’Isis, senza la maglia di Bryant ma con il turbante e il ceffo severo dello sceicco Abu Bakr Al Baghdadi, alias Abu Duaa, alias Dottor Ibrahim Awwad Ibrahim Al Badri Al Samarrai, conquista mezzo Iraq, domina la diga di Mosul, mette in fuga i tosti fanti peshmerga curdi, cattura artiglieria americana e riporta, dopo un quarto di secolo, la coalizione Europa-Usa in Iraq.

Eppure, mentre il presidente sottovaluta l’Isis, persuaso come al dibattito elettorale 2012 contro il repubblicano Romney che «Al Qaeda, in Iraq, è sconfitta», sulla testa del misterioso califfo Al Baghdadi, fino a poco tempo fa solo due foto note, una sbiadita data di nascita 1971 a Samarra, già pende una taglia di 10 milioni di dollari (7,5 milioni di euro) «per informazioni che conducano alla sua morte o cattura».

Capire come mai un capo milizia islamica dal valore così alto possa essere considerato alla Casa Bianca «scartina del basket studentesco» spiega quanto pesa la strategia – o l’assenza di strategia – occidentale in Iraq, e in che modo la metamorfosi di Al Qaeda in Iraq, da gruppo dinamitardo che semina strage tra gli sciiti a struttura di autogoverno locale, altera il panorama politico del Medio Oriente.

Al Baghdadi è stato per quattro anni prigioniero degli americani a Camp Bucca, in Iraq e il suo rilascio – dovuto alla confusa amministrazione del dopo invasione, incerta tra mano dura e compromesso con gli uomini ex di Saddam Hussein – schiude voci di complotto: si tratta invece di errori soliti della burocrazia.

Tornato libero, Al Baghdadi contesta la leadership dell’erede di Osama Bin Laden, Al Zawahiri. La vecchia Qaeda vorrebbe che l’Isis si impegnasse in Iraq, lasciando al fronte fondamentalista al Nusra la campagna in Siria. Ma Al Baghdadi ha la personalità del Padrino prima che del Califfo. Combatte al confine tra Siria e Iraq, gioca al gatto e topo con il regime alawita di Assad, spesso combattendo i ribelli filo-occidentali più che l’esercito di Damasco. Quando occupa i campi petroliferi a Est del paese, Isis rivende sottobanco i barili a Assad, trattenendo profitti maestosi.

Entrato a Mosul, in Iraq, Al Baghdadi opera col modello mafioso elaborato a Raqqa, in Siria, contrabbando, traffico di stupefacenti, rapimenti con riscatto, estorsioni, ricatti, furto di opere d’arte e reperti archeologici. Alle aziende, grandi e piccole, fino ai chioschi di frutta e verdura dei contadini, Isis impone un pizzo, capace – secondo i calcoli del Council on Foreign Relations – di incassare fino a 6 milioni di euro al mese. I fondi che arrivano dall’Arabia Saudita e dal Kuwait sono ormai solo una delle voci di bilancio, perché il contrabbando del petrolio tra Siria e Iraq arricchisce il forziere Isis dai 700 milioni di euro della scorsa primavera al miliardo e mezzo di oggi. Caduta Mosul, gli ufficiali Isis si recano subito alla locale filiale della Banca Centrale dell’Iraq, razziando milioni in banconote e titoli, secondo alcuni esperti a caccia anche delle matrici per battere moneta. Le reclute che arrivano da tutta Europa sono attratte dal fascino di un califfato, dalla Spagna alla Persia, con la minaccia di occupare l’odiata Roma dei cristiani (il portavoce Isis che aveva promesso di alzare la nera bandiera del gruppo sulla Casa Bianca, è presto caduto in combattimento). Le reclute che arrivano da Paesi poveri contano invece sul soldo.

Come già a suo tempo Hezbollah e Hamas, Isis (la sigla sta per Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, da poco accorciata in Is, Stato Islamico) il gruppo opera da welfare primordiale, punisce e giustizia i dissidenti con la ferocia della sharia, la legge islamica, ma offre sussidi ai familiari dei caduti, giustizia i corrotti in processi sommari, sovvenziona scuole e moschee, ripara strade e acquedotti, riallaccia le fognature, perfino – secondo un rapporto della rivista Foreign Policy – fa funzionare le poste.

Che fare per fermarli? Casa Bianca e stato maggiore americano sono ai ferri corti. I militari chiedono a Obama via libera a raid contro l’Isis in Siria. Il presidente, che un anno fa voleva bombardare Assad, salvo poi far marcia indietro davanti al no del Parlamento inglese, del Papa e al possibile no del Congresso Usa, non vuole vedersi nella grottesca figura di alleato di Assad anti Isis. L’errore di non aiutare i ribelli siriani filo-occidentali, rimbrottato a Obama dalla ex rivale e ministro Hillary Clinton, pesa come non mai. Mentre combatte, ricostruisce case, profitta dal crimine e arruola terroristi, il califfo Al Baghdadi se la ride dei «giovani cestisti con la maglia di Kobe Bryant», se qualcuno gli ha tradotto l’ingenuo testo del colto «New Yorker», perché la jihad non è un tiro da 3 punti.
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