Bologna, benedizione pasquale a scuola: “Crociata laicista”

di redazione Blitz
Pubblicato il 21 Marzo 2016 - 14:27 OLTRE 6 MESI FA
Bologna, benedizione pasquale a scuola: "Crociata laicista"

Bologna, benedizione pasquale a scuola: “Crociata laicista”

BOLOGNA – “Bologna. Cronache da una vera crociata (laicista)”: con questo titolo Pietro Piccinini su Tempi affronta il tema del ricorso contro la benedizione pasquale alla scuola Ic20 di Bologna. Dalle colonne del quotidiano cattolico Piccinini ricostruisce le fasi della vicenda e parla di vera e propria “guerra scoppiata intorno alla benedizione pasquale all’Istituto comprensivo 20 di Bologna”.

E attacca le parole con cui don Matteo Parodi, parroco di Zola Predosa e nipote di Romano Prodi, ha tentato di minimizzare la questione. Scrive Piccinini:

«Per svelenire il dibattito», don Matteo ha proposto di «eliminare l’acqua santa, il prete e tutto il resto e renderla più laica», la benedizione, «cambiare strada» magari rinunciando all’armamentario cattolico e limitandosi a distribuire negli uffici e nelle scuole «qualche ovetto (di Pasqua)», giacché in fondo lo scopo del gesto è «solo portare il bene agli altri». Difficilmente però il «divertissement» escogitato dal prete riuscirà nell’intento di risolvere il conflitto, visto che per i laici protagonisti di questa vicenda, da una parte e dall’altra, è in gioco qualcosa di più di una spruzzatina di H2O, appunto.

Succede questo. Nel 2005 il Consiglio di istituto dell’Ic20 di Bologna, che raggruppa due scuole elementari e una media, in totale 1.100 alunni e relative famiglie, autorizza i sacerdoti del quartiere a entrare nei locali della struttura per impartire la benedizione pasquale. Il rito è destinato solo a chi lo desideri e si tiene al di fuori dell’orario di lezione, tuttavia la decisione infastidisce ugualmente un gruppo di una quindicina di genitori e insegnanti, i quali, non riuscendo a impedire l’indigeribile atto, pensano bene di fare ricorso al Tar dell’Emilia Romagna. La sentenza del tribunale amministrativo arriva il 9 febbraio 2016 e annulla la delibera contestata del Consiglio d’istituto, a benedizione ormai bell’e fatta.

La notizia è talmente insolita che la curia guidata da monsignor Matteo Zuppi – spiazzando diversi osservatori un po’ troppo affezionati alla suggestione del prete di strada «chiamato a Bologna da papa Francesco» – non si trattiene: «La pronuncia desta stupore e amarezza; il merito non appare condivisibile», scrive in un comunicato. (…) A questo punto comunque il ministero dell’Istruzione ha già incaricato l’avvocatura dello Stato di contestare il Tar. Il caso arriva al Consiglio di Stato, che il 7 marzo scorso sospende il verdetto. Uno a uno e palla al centro. L’esame di merito è fissato per il 28 aprile, dopo Pasqua.

Nel frattempo però la benedizione pasquale è diventata un problema anche per il Comune di Bologna. Qualcuno ha protestato contro l’intenzione di far entrare il prete negli uffici di piazza Liber Paradisus durante l’orario di lavoro, e proprio il 7 marzo l’amministrazione decide di rimangiarsi l’idea: il rito si svolgerà in un locale dedicato e «nessun dipendente dovrà accompagnare alcun sacerdote o sarà costretto ad abbandonare il proprio posto di lavoro». Domanda. Chi ha convinto (costretto) i responsabili degli uffici a circoscrivere la benedizione in Comune? Una diffida dell’immancabile Uaar (Unione degli atei e degli agnostici razionalisti). Ma soprattutto una lettera indignata della Cgil. Sigla che rivedremo presto.

Ebbene, fin qui più o meno quel che si è letto sui giornali. Sui giornali però non si è letto proprio tutto. Sicuramente quasi nessuno si è preoccupato di mettere in luce la cosa più importante. E cioè che la battaglia sulla benedizione a Bologna non è affatto l’ennesimo scontro tra turbocattolici disperatamente abbarbicati a polverose tradizioni e laicisti impazienti di sbarazzarsene. (…) Una «guerra» – noterebbe un giornale giornalisticante – tutta “interna alla sinistra”. Perché i capifila degli schieramenti coinvolti sono tutti democratici dal pedigree esemplare, non certo assimilabili, per dire, al cattolicesimo barricadero dei familyday. Il citato presidente del Consiglio d’istituto si chiama Giovanni Prodi. Prodi al pari del don Matteo di cui sopra, che è suo fratello e come lui è nipote di Romano. Ma soprattutto la preside dell’Ic20, Daniela Turci, divenuta suo malgrado eroina principale della resistenza alla crociata anticristiana, è dentro al Pd fino al collo. Del più grande partito della sinistra infatti Daniela Turci è consigliere comunale a Bologna, anche se lei specifica che in questa storia «il Pd c’entra poco», e che c’entra piuttosto la «difesa da parte di un dirigente scolastico delle decisioni prese con una votazione in modo democratico».

Nell’ultimo anno infatti la preside ha passato un bel pezzo del suo tempo a ribadire in ogni occasione possibile che la sua scuola, di fronte alla inedita richiesta dei parroci, ha seguito attentamente le regole dettate dal Consiglio di Stato per queste circostanze. I ricorrenti al Tar – ha sempre spiegato – si sono attaccati a pretesti inesistenti e l’unico tentativo di «imposizione» in questa storia – aggiunge ora a Tempi – è stato proprio il loro, poiché invece «la maggioranza dei consiglieri non voleva opporre un divieto» alla domanda dei sacerdoti, non voleva precludere loro il perimetro della scuola «perché quel muro rappresenta l’esclusione. E l’esclusione fa male, fa male a chi crede che lasciar entrare un religioso non mini assolutamente la laicità dello Stato: non si obbliga nessuno a fare nulla, si offre solo un luogo per un rito che è segno di pace». La famosa differenza fra alzare muri e aprire porte. «Pensi che alcuni dei ricorrenti – aggiunge la preside – non volevano neanche che il punto “benedizioni pasquali” fosse messo all’ordine del giorno del Consiglio d’istituto. Ho visto in certe reazioni una intolleranza, una cattiveria, una impossibilità di accettazione spaventose».

E chi è che ha scatenato la «guerra» alla benedizione pasquale all’Istituto comprensivo 20? Di nome noto, fra le carte bollate spedite al Tar, spicca solo quello di Maria Virgilio, detta Milli, penalista, docente alla facoltà di Giurisprudenza, «femminista storica» e super militante di molteplici “diritti”, ex assessore all’Istruzione della giunta Cofferati, rimasta impressa nelle cronache dell’epoca per poco altro oltre alla soddisfazione con cui nel 2006 annunciò il taglio del buono scuola per le famiglie degli «istituti privati paritari». Nel caso dell’Ic20 Milli Virgilio indossa i panni dell’avvocato di alcuni dei genitori e insegnanti offesi dalla benedizione.

Per il resto, occorre solo segnalare la presenza, in qualità di firmatario del ricorso, del Comitato Bolognese “Scuola e Costituzione”, associazione con sede costituita «presso Cgil Scuola» (toh, chi si rivede) e con finalità immediatamente evidenti sulla base della più semplice ricerca online. Nonostante i refusi, basta leggere lo statuto sul sito del comitato per capire subito cosa intenda per “laicità” e “diritti delle minoranze”. «Vivono di ricorsi», dice Daniela Turci. «E portano avanti un disegno che parte da lontano». (…)

E pensare che fra le argomentazioni esposte nella richiesta di annullamento della delibera del Consiglio d’istituto sulla benedizione – argomentazioni in buona parte sposate dal Tar nella sentenza –, vi era anche l’asserito «stress» provocato agli alunni non cattolici dalla necessità di “dire” la propria diversità rinunciando a partecipare al rito (facoltativo ed extrascolastico). «Ma questo – chiosa la dirigente – conferma solo il non-ascolto da parte dei ricorrenti, perché al contrario i pochi musulmani che abbiamo, circa il 20 per cento del totale degli alunni, mi hanno detto esplicitamente che a loro la benedizione non ha dato alcun fastidio. Anzi».

Ma cosa pensino cattolici, musulmani e atei ai giudici amministrativi sembra interessare fino a un certo punto. A leggere la sentenza, il Tar in effetti pare più che altro preoccupato di restringere la portata della libertà religiosa, ridefinendo i «riti religiosi» come espressioni «attinenti unicamente alla sfera individuale di ciascuno» e indicando nella loro celebrazione una forma di «discriminazione» in cui la scuola non può in nessun modo «essere coinvolta».

Daniela Turci invece ci tiene a dire che «io lavoro per l’inclusione, non per l’esclusione», e ne fa una questione di «autonomia scolastica», principio che con questo processo sproporzionato è stato «attaccato, colpito, boicottato». (…) Per Daniela Turci invece è ora che Scuola e Costituzione accetti di «stare su un piano di verità». Sono troppe le «menzogne» che sono state messe in circolazione per travestire da giusta causa una paradossale campagna di intolleranza di 15 persone verso un’intera scuola. «Hanno detto che doveva essere coinvolto il collegio docenti quando invece è solo il Consiglio d’istituto che deve deliberare sulla benedizione (ma la legge dobbiamo rispettarla o no?). Poi hanno detto che la sentenza del Tar vale per tutti». Ma soprattutto, la cosa più assurda, «adesso dicono: non abbiamo iniziato noi. Ah no? Per dire. Noi poniamo una discussione pacata in un Consiglio di 20 persone e ci ritroviamo addosso l’Uaar, Scuola e Costituzione coi cartelli, poi chiamano il New York Times (in effetti il caso ha occupato perfino quelle illustri colonne, ndr), chiamano i giornali spagnoli, i giornali francesi… Chi è che ha iniziato? Non c’è stato un dibattito sano, ma un dibattito cattivo, inquinato. Questa è una guerra».