Gigi Proietti e l’autobiografia: “Tutto sommato qualcosa mi ricordo”

di Redazione Blitz
Pubblicato il 12 Novembre 2013 - 09:33 OLTRE 6 MESI FA
Gigi Proietti

Gigi Proietti

ROMA – “Tutto sommato qualcosa mi ricordo”,  questo il titolo dell’autobiografia di Gigi Proietti, un libro di memoria e memorie, un libro d’amore, d’amore per per Roma e per l’esistenza che anima, con humour quotidiano, le piccole e grandi imprese.

Gigi Proietti, in collaborazione con il Messaggero, ha deciso di pubblicare una piccola anticipazione del libro:

Uno dei primi attori che ho doppiato è stato Richard Burton in Chi ha paura di Virginia Woolf?, un ruolo che mi aprì le porte del mestiere. Poi continuai a fare molto doppiaggio, a volte per coproduzioni ispano-tedesche-greco-italiane. Una di queste mi chiamò una volta a doppiare un genere di film che ribattezzammo Zero-Zero-Undici. Prestavo la voce a un falso James Bond, un bellone un po’ attempato. Il cattivo di turno era un cinese. La direttrice del doppiaggio, nonostante fosse consapevole della bassezza del prodotto, ci teneva a non renderlo ancora più penoso. «Per favore, facciamo un buon lavoro» ci pregò. «Evitiamo di fare questo cinese alla “buonasela signole, che bella clavatta”».

 

Il doppiaggio ha spesso vissuto su stereotipi razzisti. Dopo Via col vento, per esempio, per anni tutti gli attori di colore sono stati doppiati come era stata doppiata Mamy. Era tutto un: «Zì, badrone».
Scoprimmo che l’attore cinese viveva a Roma, quindi decidemmo di chiamarlo, anche per onestà intellettuale. Come dicevamo nei sit-in: una voce, un volto. Il signor Wan era un omone alto due metri. Noi a Roma abbiamo sempre un po’ confuso cinesi e giapponesi. Quando in un film di guerra sul Pacifico sbucava un giapponese dal cespuglio con le foglie sull’elmetto, c’era sempre una voce dalla platea che diceva: «Tana per cinese!». Wan arrivò al doppiaggio insieme alla figlioletta di sette, otto anni, che fu presa subito da parte dalla direttrice che le disse: «Vedi lampadina? Quando rosso tu zitta! Silenzio! Sssh!». «Guarda che vive a Roma» le disse qualcuno. «Mi sa che lo parla, l’italiano». Niente da fare, era convinta che capisse meglio così.

Mi dissero di andare a prendere un caffè, nel frattempo avrebbero spiegato a Wan i dettagli tecnici e avrebbero montato la porzione di film sulla quale avremmo inciso le nostre voci. Tornato dal bar entrai in sala, misi le cuffie e sullo schermo scorsero le immagini del mio personaggio legato a una sedia e minacciato dal cattivo cinese. Quando arrivò il momento dissi la battuta: «Cosa volete da me?». E il signor Wan partì come un treno: «Ci avete da di’ tutte ’e cose che sapete sur conto nostro, e si quarcun artro n’è ar corente». Parlò proprio così: in un romanesco purissimo e involontario. Mi girai verso la regia e non vidi nessuno. Erano tutti sotto al bancone a ridere, mentre Wan continuava a recitare il suo monologo in un romanesco sempre più stretto.
Quando si ripresero dalle risate e chiamarono lo stop fu chiaro che dovevamo ripetere la scena. La bambina, che si stava annoiando maledettamente, si girò verso suo padre e gli disse: «A pa’, e sbrighete…».
IL GRUPPO 101
Con il Gruppo 101 proponemmo al Teatro Stabile di Roma, che in quel periodo aveva sede nel Teatro Valle perché l’Argentina era in disuso, Nella giungla delle città, un’opera interessantissima e ancora molto attuale di Brecht, in cui è inscenato il contrasto tra il commesso di una biblioteca e un misterioso capitalista. Andò così bene che avemmo la possibilità di mettere in scena un nuovo testo, consentendoci qualche libertà in più e provando ad andare oltre i nostri stessi limiti. Prendemmo quindi parte a una serata in onore di Picasso e Apollinaire cimentandoci in un testo del primo, Il desiderio preso per la coda. Era uno spettacolo a quadri del 1941 in cui Picasso criticava le storture prodotte dai comportamenti dell’uomo, dal suo innato egoismo. Era stato scritto nel pieno della Prima guerra mondiale, quindi la causa scatenante era soprattutto il divario economico che il conflitto aveva drammaticamente accentuato. La fame e l’ossessione per il cibo (quello che c’era e quello che non c’era) erano al centro di tutto. Recitavamo cose come: «Tutto sommato niente è più buono dello spezzatino di montone, ma io preferisco il gulasch, e ancora più lo stracotto fatto in un giorno di felicità e di neve, per le cure gelose e meticolose della mia cuoca schiava slava moresca albuminurica serva e padrona, parte inseparabile dell’architettura della mia cucina». Può sembrare un testo destinato a nascere e morire nell’ambito del giro ristretto del teatro sperimentale, eppure quelle sonorità, quelle impennate linguistiche stimolavano in me qualcosa che sarebbe emerso solo qualche anno dopo, assumendo la forma di un teatro tutt’altro che intellettualistico e «per pochi».

I FIATI
Era un periodo in cui mi impegnavo tantissimo, mi allenavo continuamente. Passavo giornate intere ad ascoltare i dischi di Charlie Parker e Dizzy Gillespie per studiarne la lunghezza dei fiati. Ero pazzo. Una volta capito come facevano, svelato il meccanismo di inspirazione ed espirazione, iniziai a provare a fare monologhi sempre più lunghi, con sempre meno pause di respirazione. Mi dicevo: «Questo monologo adesso riesco a recitarlo prendendo aria quattro volte», e iniziavo a ripeterlo ancora e ancora, finché non riuscivo ad arrivare fino in fondo con un solo fiato. Facevo come gli atleti: nel momento in cui sentivo che il cuore mi stava scoppiando tiravo avanti ancora un po’. Solo in questo modo è possibile migliorarsi. Uno degli esercizi consisteva nello spostare la punteggiatura e ripetere le frasi a varie velocità e con diverse intonazioni. Quindi stavo lì a ripetere: «Sono venuto qui e sono contento di esserci», o «Sono venuto qui. E sono contento di esserci», e poi «Sono venuto. Qui. E sono contento di esserci», e ancora «Sono venutoquiesono. Contento. Diesserci».
Avevamo l’impressione di essere come degli alchimisti. Il nostro compito era quello di prendere un testo e farlo significare le cose più diverse, rendere più nette le sfumature, rimarcare dei punti meno espliciti. Stavamo inventando un linguaggio? Bah! Passavo ore davanti allo specchio a pronunciare senza sosta frasi che non avevano alcun senso. A volte passava mio padre, mi guardava e mentre si allontanava scuotendo la testa lo sentivo sbuffare: «Io ’sto fijo mio nun lo capisco». Un giorno mi beccò che ero appena rientrato a casa. Non mi vedeva da un po’ e allora fu più diretto del solito.
«Ma se po’ sape’ che stai a fa’?» «Sto a fa’ teatro, non preoccuparti». «Ma che stai a di’? Che teatro stai a fa’?» «A papà, è teatro!» «E che teatro è? Se po’ sape’ er titolo?» Titubante gli dissi: «Stiamo preparandoRiflessi di conoscenza». «Conoscenza de che? Nun ciavete da studia’? Ma fate un po’ come ve pare…».