Il Veneto potrà riscattarsi? Paolo Possamai lancia la sfida

di Redazione Blitz
Pubblicato il 22 Aprile 2016 - 05:00 OLTRE 6 MESI FA
Il Veneto potrà riscattarsi? Paolo Possamai lancia la sfida

Il Veneto potrà riscattarsi? Paolo Possamai lancia la sfida

PADOVA – Il primo editoriale di Paolo Possamai, che dalla direzione del Piccolo di Trieste è passato alla guida congiunta dei quattro giornali veneti del Gruppo Espresso, Mattino di Padova, Tribuna di Treviso, Nuova di Venezia e Mestre, Corriere delle Alpi è un manifesto e una sfida per il ritorno del Veneto al posto che la geografia e la recente storia gli assegnano.

La drammatica vicenda delle banche popolari venete porta con sé alcune riflessioni, che non riguardano affatto solo i soci, i clienti e i correntisti. Non è in questione anche altro da una furiosa distruzione di patrimoni familiari, aziendali, di comunità. Il disgraziato itinerario di due istituti – Banca popolare di Vicenza e Veneto Banca – tra i maggiori dieci a livello nazionale è una partita che chiama in causa anche la capacità riformista e la capacità di leadership del Veneto (o se preferite: del Nordest).

Se alla fine di quest’anno il Veneto avrà perduto il controllo di tutte le banche di territorio, e se i centri decisionali saranno altrove emigrati – includo in questo ragionamento anche il Banco popolare, poiché l’asse post fusione con Bpm slitterà su Milano – non dipenderà da un destino cinico e baro. Sarà invece l’effetto di una incapacità e di un’attitudine ciecamente conservativa. Che è – per l’appunto – l’inverso del riformismo di cui il Veneto è stato portabandiera dagli anni ’90 in avanti e che è andato progressivamente perdendo, con l’esaurirsi – in particolare – della spinta di una formidabile leva di sindaci, imprenditori, leader dell’associazionismo (cattolico e non), intellettuali.

Occorre puntualizzare il senso di questa tesi. Intendo dire che le storture del sistema banche popolari erano del tutto note anche alle nostre latitudini. Che fosse una patologia grave la permanenza ai vertici delle stesse persone lungo un quarto di secolo, non poteva sfuggire. Ma il ceto dirigente delle banche medesime, che era a propria volta un pezzo fondamentale del sistema a livello nazionale, non ha proposto alcun processo di auto-riforma. Pura conservazione espressa da chi era seduto nei posti di comando, così come nessuna voce di critica dal resto del corpo sociale.

Esito finale di tale parabola: le banche sono andate incontro alla crisi economica truccando le carte, e dando a Roma e al governo il punto di leva per un intervento di riforma radicale, e dando alla Bce la chance di destrutturare totalmente l’assetto bancario a Nordest (e non solo).

La vicenda delle banche, insomma, indica con evidenza come il ceto dirigente veneto abbia smarrito lo slancio al cambiamento, abbia perso di vista un progetto di lungo periodo. Parlo di ceto dirigente e non restrittivamente solo di ceto politico. Il tiro al bersaglio verso la politica, infatti, è addirittura ovvio tenendo conto del livello espresso da parte significativa dei rappresentanti eletti nei vari ambiti istituzionali.

Ma la questione è di portata più larga, più pervasiva. Perché in effetti è come se fossimo tutti prigionieri di una sorta di collettiva disillusione (per i troppi investimenti in speranza andati falliti negli anni passati), come se fossimo preda di un flusso di corrente negativa (perché ci pare impossibile pensare che domani non sarà peggio di oggi, e di sicuro inattingibile la ricostruzione di ciò che è stato ieri).

Ipotizzare una nuova stagione di federalismo, per esempio, può strappare un sorriso sardonico, scetticismo, incredulità. Perché abbiamo dato eccellenti ragioni alla burocrazia romana per un processo di neo-centralismo che ha consegnato le amministrazioni locali a una sorta di camicia di forza. Siamo stati con-causa di questa avvilente condizione.

Quando avremo preso consapevolezza dei nostri limiti e dei nostri errori, e se la piantiamo di dare la colpa di tutto a Roma, Francoforte e Bruxelles, saremo in grado di collocare la pietra angolare di un edificio nuovo.

I mattoni non mancano, di questo dobbiamo essere altrettanto persuasi che delle nostre passate gravi inadempienze e lentezze e insufficienze e ignavia. I mattoni sono i tantissimi attori – più o meno nascosti – della società veneta che ne hanno consentito la salvezza nonostante tutto. Parlo di un ceto dirigente diffuso, che sta sotto alla crosta malata. Parlo di docenti universitari, industriali, operatori dell’associazionismo, professionisti che hanno saputo – ciascuno nel proprio ambito – perseguire obiettivi di rinnovamento e di rilancio, che non si sono impigriti e ripiegati. Parlo di una generazione nuova, cui gli ottantenni dovrebbero dare spazio. E riguardo ai temi, è possibile iniziare a guardare dentro per davvero e seriamente al negoziato Stato/Regione che dovrebbe assegnare competenze nuove all’autogoverno di territorio? È possibile farlo senza proclami e pragmaticamente spiegando obiettivi, tempi, modi?