Letta-Renzi; Droga, bocciata la Fini-Giovanardi: rassegna stampa del 13 febbraio

di Redazione Blitz
Pubblicato il 13 Febbraio 2014 - 08:25 OLTRE 6 MESI FA

Letta-Renzi; Droga, bocciata la Fini-Giovanardi: rassegna stampa del 13 febbraioROMA – Letta rilancia, ma Renzi vuole le dimissioni. Il Corriere della Sera: “Il premier: vado avanti, chi cerca il mio posto lo dica. La replica: basta, il partito è con me.”

Un nuovo patto senza scadenze Letta non lascia e sfida Renzi. L’articolo a firma di Alessandro Trocino:

Subito dopo l’incontro mattutino tra Enrico Letta e il segretario del Pd Matteo Renzi, molti renziani fanno capire che è fatta. In Transatlantico si lasciano andare: «Letta ha capito, si tratta solo di decidere di che morte vorrà morire». Il Renzi I è pronto a decollare. Ma passano pochi minuti e da Palazzo Chigi risuonano tamburi di guerra: «Ognuno è rimasto sulle sue posizioni». E che sia così, lo si capisce nella conferenza stampa delle 18 del premier. Quaranta minuti e oltre di bordate, sia pure ben calibrate e senza mai esagerare, con un unico destinatario: Matteo Renzi. E così Letta sfida il suo avversario, lo invita a uscire allo scoperto e contemporaneamente prova a rilanciare il suo governo, proponendo un Letta bis e un «nuovo patto» senza scadenze. Mossa che spiazza i renziani, convinti fino all’ultimo del passo indietro. La parola, e potrebbe essere quella definitiva, passa ora alla direzione del Pd, che si riunisce oggi.

L’incontro mattutino tra Letta e Renzi dura un’ora e non è certo sereno. Ma all’uscita il segretario del Pd spiega ai suoi di essere soddisfatto. Il premier, racconta, gli avrebbe fatto capire di essere pronto ad accettare la svolta. Renzi gli ha anche proposto un incarico di governo. Ma evidentemente Letta ha altre idee. Anche Dario Franceschini, ministro scelto dal premier, ma attivissimo negli ultimi giorni per creare le condizioni di una svolta, prova a convincere Letta a desistere. Ma il premier non ne alcuna intenzione. Non vuole suicidarsi. Se morte dovrà essere, vuole che sia indicato il nome di chi l’ha causata. La tentazione del voto anticipato torna ad avvicinarsi. Ma il capo dello Stato la respinge seccamente. E a chi glielo accenna, risponde: «Non diciamo sciocchezze».

Letta si presenta in conferenza stampa con un sorriso un po’ tirato. Fa una photo opportunity con il manifestino del patto di coalizione, «Impegno Italia», dal quale è sparito l’orizzonte temporale. Parte subito all’attacco. Nega di aver perso tempo: «Ho aspettato le decisioni del Pd, che aveva voluto dare la precedenza alla legge elettorale. Se si è perso tempo non è colpa mia». Smentisce recisamente di volersi dimettere: «Le dimissioni non si danno per dicerie, per manovre di palazzo, per retroscena». Poi attacca: «Ognuno deve pronunciarsi. Ognuno deve dire cosa vuol fare, soprattutto chi vuole venire qui al posto mio. Ognuno deve giocare a carte scoperte». Letta si dichiara «uomo del Pd» e «uomo delle istituzioni». Si dice orgoglioso del lavoro fatto al governo: «Abbiamo fatto molto, per le condizioni date. Vivo ogni giorno come se fosse l’ultimo, anche perché sono stati talmente tanti quelli che hanno cercato di cacciarmi…». Nonostante questo, si dice sereno. E lo dice con un riferimento sarcastico a un hashtag usato da Renzi nei giorni scorsi, per rassicurare il premier (#enricostaisereno): «L’hashtag è #iosonoserenoanzizen. Se mi andasse male, potrei andare in qualche monastero a insegnare pratiche zen».

La tattica del sindaco per la direzione: niente provocazioni, tanto si dimette. L’articolo a firma di Maria Teresa Meli:

Nell’ultimo summit, a sera tarda, quello ristretto, con Speranza, Zanda, Franceschini e Renzi si decide la linea finale: non raccogliamo le provocazioni di Letta, tanto domani si dimette. Perciò il segretario ieri ha preferito tacere ufficialmente. E far dire al suo portavoce Guerini: «In Direzione non ci sarà nessun duello. Il contributo offerto dal premier sarà oggetto di una discussione responsabile e approfondita, così come sarà fatto per quanto riguarda l’operato del governo».

Ma questa è l’ufficialità. Con i suoi, naturalmente, Renzi è ben più esplicito: «La storia si è esaurita, non ci sono più le condizioni per andare avanti. Questo governo rischia di essere una zavorra per l’Italia». Già, con i fedelissimi il sindaco di Firenze è netto e lascia pochi spazi ai dubbi. «Il partito è compatto con me», spiega il segretario. Sì, perché la minoranza gli ha fatto sapere che sarà con lui, oggi in Direzione. L’unico nodo da sciogliere è se sia meglio votare la relazione del segretario o un ordine del giorno, che formalmente spersonalizzerebbe lo scontro tra il leader e il premier. Ma la sostanza non cambia. Seppure in maniera garbata, sottolineando la bontà di alcune parti del programma di Letta («Tra l’altro — osserva il segretario — ha preso pari pari il Jobs act, le mie proposte sulla scuola, lo ius soli…».), si dirà che però ci vogliono «un’altra fase» e «altri protagonisti». Insomma, è necessaria «una discontinuità».

Di fatto, sarà una sorta di sfiducia a Letta, ma molto molto soft, per evitare nuovi scontri e conflitti. E i renziani sono convinti che dopo quel pronunciamento il presidente del Consiglio andrà al Colle, anche se c’è chi dice che invece insisterà per un passaggio parlamentare. Ma in casi come questi, è chiaro, i dubbi e i sospetti si affollano. Al Nazareno c’è addirittura chi sospetta che Letta voglia creare una sorta di «Asinello», come fece Parisi dopo che D’Alema prese il posto di Prodi. Un Asinello di centro, però, con i «Popolari per l’Italia» e Ncd. Il segretario non ci crede, invece. E comunque tira dritto per la sua strada. Non gli fanno paura nemmeno i sondaggi anti staffetta che i lettiani twittano da giorni: «I leader devono leggerli i sondaggi, non seguirli. Se io li avessi seguiti sarei rimasto presidente della provincia di Firenze. Non mi fanno paura, vedrete che la gente si dimenticherà questa storia». Qualcuno dei suoi gli chiede come. E lui risponde lesto: «Ho intenzione di fare due o tre cose esplosive nei primissimi mesi del governo, due tre cose importantissime. La staffetta non se la ricorderà più nessuno. Si dimenticheranno tutti del cambio tra me e Letta. Alla gente interessa l’occupazione, la crisi economica…».

Spinta di Cgil e Confindustria dietro la corsa del segretario Quella telefonata al Cavaliere. L’articolo a firma di Francesco Verderami:

Perché? Perché ha cambiato la linea con cui si era imposto alle primarie del Pd? Perché ha stracciato il «patto di programma» proposto a Letta per il 2014? Perché ha disatteso l’intesa con Berlusconi sulle riforme che non prevedeva un cambio di governo? Insomma, perché il leader democratico ha sconfessato se stesso, decidendo di muovere subito su Palazzo Chigi? È vero, Renzi va veloce per indole. Ma stavolta ha accelerato anche perché «spinto». Lo ha fatto capire nei conversari riservati dello scorso weekend, nei colloqui e nelle telefonate con le quali ha preannunciato ai suoi interlocutori la decisione di puntare alla guida dell’esecutivo.

Certo, in parte Renzi ha fatto dipendere la scelta da fattori politici e dall’analisi dei sondaggi: con l’esecutivo in carica segnato da una progressiva crisi di consensi e con il rischio di veder compromessa la corsa delle Europee «non ho alternative», aveva spiegato ad Alfano per sondarlo. Chissà, forse di «alternative» ne avrebbe avute, se non fosse che a spingerlo per impegnarsi in prima persona — a suo dire — si erano messi in tanti: da Confindustria a Cgil. E lui per tempo li aveva assecondati. Già la decisione di convocare la direzione del Pd per il 20 febbraio — il giorno dopo la mobilitazione generale delle imprese a Roma — era parso un segnale chiaro, specie all’indomani delle dichiarazioni di Squinzi, secondo cui se Letta il 19 si fosse presentato al direttivo degli industriali con la «bisaccia vuota» sarebbe stato «un problema»: «Tanto varrebbe andare a votare».

«Non si è mai visto un presidente di Confindustria trattare così un presidente del Consiglio», aveva commentato l’Ncd Cicchitto: «La verità è che si sono schierati con Renzi. Vogliono la staffetta a Palazzo Chigi». E la moral suasion verso il capo democrat pare provenga anche dal mondo delle aziende pubbliche, dove in primavera andranno in scadenza centinaia di incarichi: dai vertici di Enel a Finmeccanica, a quelli di Eni, il cui capo è in grande sintonia con Renzi. Almeno così è sembrato agli ospiti di Porta a Porta invitati all’ultima apparizione del leader democratico alla trasmissione tv. Tra gli invitati infatti c’era anche Scaroni, che — prima di andare in onda — nella saletta dove viene servito un buffet, si era avvicinato a Renzi e a voce alta gli aveva detto: «Matteo, hai visto quello schema che ti ho mandato? Se c’è qualcosa che non si capisce, chiamami…».

La Consulta boccia la Fini-Giovanardi “E ora in 10mila usciranno dal carcere”. La Repubblica: “Incostituzionale equiparare droghe pesanti e leggere. La destra: regalo agli spacciatori.” L’articolo a firma di Liana Milella:

La Consulta risolve forse, a sorpresa, il problema delle carceri, e salva l’Italia dalle multe salate della Corte di Strasburgo per via del sovraffollamento. Diecimila detenuti sono tanti, rispetto ai 61mila attuali, e potrebbero uscire di cella grazie alla decisione della Corte costituzionale che cancella — dopo una breve discussione e con i 15 giudici praticamente unanimi — le norme più contestate della legge Fini-Giovanardi sulla droga del 2006. Quelle che, infilate in un decreto che legiferava sulle olimpiadi invernali, cancellò la distinzione tra drogheleggere e pesanti, uniformò le pene per le une e le altre, e le alzò da 6 a 20 anni. Quel decreto cancellava la vecchia legge, la Iervolino-Vassalli del 1990, che distingueva tra i diversi tipi di droga, sia per la produzione che per il consumo e lo spaccio, e puniva quello più lieve, per hashish e marijuana, con una pena da 2 a 6 anni.

Ora si volta pagina. A deciderlo è la Corte che, su una questione di legittimità costituzionale sollevata dalla terza sezione penale della Cassazione, boccia la Fini-Giovanardi perché la legge del 2006 forzò il decreto originario con questioni del tutto disomogenee. Ai fondi per le olimpiadi invernali, fu agganciato in aula il treno della droga, in evidente contrasto con l’articolo 77 della Costituzione che impone decreti in casi «di straordinaria necessità e urgenza » e omogenei. Fino all’ultimo, anche il governo Letta, con l’Avvocatura dello Stato, ha difeso la legge, dicendo invece che nel decretoc’era materia per inserirepure le norme sulla droga.

Adesso il problema è che succede a chi sta dentro per colpa della Fini-Giovanardi. Come dice Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano, arrestato per 21 grammi di hashish, picchiato dagli agenti e ucciso, «senza questa legge lui non sarebbe mai stato arrestato». Il punto è questo. Stefano Anastasia, l’ex presidente dell’associazione Antigone e oggi tra i promotori dell’appello per far bocciare la legge, parla di «una sentenza eccezionale che farà storia» e ipotizza che potrebbero essere proprio 10mila i detenuti che potrebbero uscire dal carcere. Ovviamente bisognadistinguere tra soggetti in attesa di giudizio e definitivi. L’ex Guardasigilli ed ex presidente della Consulta Giovanni Maria Flick, che alla Corte ha rappresentato le tesi dell’incostituzionalità della Fini-Gionardi, ritiene che la decisione della Corte non tocchi quelli definitivi. Ma un precedente della Consulta è decisivo. Quando fu cancellata la famosa aggravante di clandestinità, la Cassazione stabilì che la porzione di pena inflitta dalla legge bocciata doveva essere di conseguenza cancellata. Quindi, per le sentenze definitive, il condannato potrà proporre un incidente di esecuzione per chiedere il ricalcolo della pena.

Eutanasia anche sui bambini la legge shock che spacca il Belgio. La Repubblica: “Cristiani, ebrei e musulmani lanciano un appello per il “no”.” L’articolo a firma di Andrea Bonanni:

Ci sono state veglie di preghiera in molte chiese del Belgio, raccolte di firme e perfino manifestazioni di piazza. Ma non sono servite a niente. Così oggi la Camera dei deputati belga dovrebbe dare il via libera definitivo, con un’ampia maggioranza, ad una legge che estende il diritto all’eutanasia anche ai minori affetti da malattie in fase terminale e ai bambini senza limiti di età. Il provvedimento è già stato approvato al Senato e in Commissione parlamentare ed è sostenuto da socialisti, verdi e liberali ma viene osteggiato duramente dai partiti di ispirazione confessionale.

Finora in Europa solo l’Olanda ha legalizzato l’eutanasia sui minori, ma fissando l’età minima a dodici anni. Nel progetto di legge belga questo limite non è contemplato. Le uniche condizioni poste sono che uno psicologo esterno all’équipe terapeutica accerti la capacità di intendere del bambino che chiede l’eutanasia, che la malattia sia arrivata allo stadio terminale con sofferenze fisiche non alleviabili, e che ci sia il consenso dei genitori.

In Belgio l’eutanasia per gli adulti è legale dal 2002 e vi fanno ricorso 1.500 persone l’anno. Il caso più famoso è stato, nel 2008, quello dello scrittore e drammaturgo Hugo Klaus, affetto da Alzheimer. Complessivamente le morti indotte rappresentano il 2 per cento delle cause di decesso e la pratica è ormai comunemente accettata. Ma l’eutanasia dei bimbi è evidentemente una questione straziante e ha acceso nel Paese un forte dibattito, anche se tutti concordano che troverebbe applicazione pratica solo in rarissimi casi. I fautori della legge la difendono sia per motivi di principio «umanitari», sia per tutelare le strutture mediche che spesso, per pietà, sono indotte ad abbreviare le sofferenze dei piccoli pazienti in un quadro giuridicamente incerto.

La Chiesa belga, però, capitanata dall’arcivescovo di Malines-Bruxelles monsignor Leonard, è scesa in campo contro l’iniziativadenunciando il rischio di una «banalizzazione » dell’eutanasia. Leonard ha tenuto una veglia di preghiera «per risvegliare le coscienze » nella basilica di Koekelberg, simili liturgie sono programmate nelle chiese di tutto il Belgio. Esponenti delle tre religioni monoteiste, cristiani, musulmani ed ebrei, hanno lanciato un appello contro la legge.

Sbarre segate con la lima e lenzuola annodate per la fuga a Roma l’evasione da fumetto. La Repubblica: “Caccia a due detenuti. E il quartiere tifa per loro: “Non fatevi prendere”.” L’articolo a firma di Lorenzo D’Albergo e Fabio Tonacci:

Dimenticate Papillon, dimenticate Alcatraz e qualunque altro film con spettacolari piani d’evasione. Questa dei due rapinatori scappati martedì notte dal carcere di Rebibbia è stata più una fuga da vignetta della Settimana Enigmistica: una lima per segare le sbarre, le lenzuola annodate per scavalcare il muro, nessun allarme che suona. Senza parole.

Fa quasi ridere, se non fosse cheGiampiero Cattini, 41 anni, e Sergio Di Palo, 35 anni, ora liberi di girare per Roma disseminata di posti di blocco, sono pericolosi: pluripregiudicati, sulla fedina penale rapine, ricettazione, furti, droga e violazione degli arresti domiciliari. Sarebbero usciti nel 2018. Ma con un piano che più banale non si poteva si sono accorciarti da soli il “fine pena”, lasciandosi dietro una scia di dubbi sulla sicurezza a Rebibbia, a cui qualcuno dovrà pur rispondere. Perché non c’erano telecamere? Perché non c’era una guardia nel gabbiotto a pochimetri dal punto dove hanno scavalcato?

Torniamo a martedì. Sono le 22.05, Cattini e Di Palo guardano la tv e chiacchierano nello spazio comune della Terza Casa, l’istituto a sorveglianza attenuata dove vengono messi i tossicodipendenti e chi è prossimo alla scarcerazione «allo scopo di sviluppare l’autodeterminazione dei carcerati ». In tutto 47 detenuti e, a quel-l’ora, 3 agenti della penitenziaria e un sotto ufficiale. Uno di questi offre loro una sigaretta. Solita routine prima della chiusura notturna delle celle.

Ma alle 22.25 i due non ci sono più. Se ne accorge il secondino dell’ultima ronda, che scopre tre sbarre di una finestra segate con una lima, forse introdotta nella prigione dentro un libro e sparita, come i suoi utilizzatori. «Sono tondini di appena 12 millimetri di diametro — denuncia Donato Capece del Sappe, il sindacato autonomo della penitenziaria — e nella struttura, da quando è entrata in vigore la vigilanza “dinamica” per il taglio del budget, è stato pure tolto il posto fisso di guardia». La finestra è a 7 metri da terra, ma Cattini e Di Palo hanno usato le grate delle altre celle come scalini, portandosi dietro le lenzuola annodate, a cui hanno applicato un gancio di ferro a un capo. Hanno lanciato l’arpione sul muro di cinta, alto 5 metri ma privo di allarme antiscavalco, si sono arrampicati e sono saltati giù, nell’area del magazzino dei vestiti. Da lì sono scomparsi nel buio della notte di Roma, senza mai incontrare una sentinella.