Marco Travaglio. Ragionali. Analisi in 10 punti di un voto che a Matteo Renzi dispiace

a cura di Sergio Carli
Pubblicato il 2 Giugno 2015 - 10:04 OLTRE 6 MESI FA
Marco Travaglio. Ragionali. Analisi in 10 punti di un voto che a Matteo Renzi dispiace

Marco Travaglio. Analisi in 10 punti del voto regionale

ROMA – Marco Travaglio analizza il risultato del voto delle Regionali 2015 e espone il suo giudizio in 10 punti nell’editoriale di martedì 2 giugno 2015 pubblicato sul Fatto col titolo “Il partito della Nazioncina”. Vivendo lo stesso Marco Travaglio sotto la cupola dell’iperspazio del Potere, essendo abbastanza giovane e ricco e anche in carriera, Marco Travaglio sembra lontano dalla vera Italia, quella dei moderati oggi stufi se non furibondi, quella Italia che determina voti e astensionismo. Italia fatta di ceto medio: impiegati di livello, dirigenti, professionisti, insegnanti, pensionati, quei pensionati che il Governo e il suo nucleo forte del Tesoro hanno irriso e sbeffeggiato.

Per questo l’analisi di Marco Travaglio è viziata un po’ da un’ottica limitata. La sua lettura però offre spunti di riflessione e anche di contrasto che la rendono consigliabile.

1) Numeri. Calcolando le regioni vinte e quelle perse, non c’è dubbio che le elezioni le abbia vinte il Pd sul centrodestra 5-2, mentre i 5Stelle continuano a non governarne nessuna. Contando le regioni strappate agli avversari, c’è un perfetto equilibrio rispetto a cinque anni fa: 5 al Pd e 2 al centrodestra (con lo scambio incrociato Liguria-Campania). Quindi nessun effetto-Renzi, anzi: alle regionali del 2010 il Pd di Bersani fece molto meglio di lui, con 1 milione di voti in più (26% contro 25, e allora il centrosinistra non aveva ancora raso al suolo i suoi alleati, dall’Idv alle sinistre radicali). E il paragone con il risultato di un anno fa alle Europee è ancor più impietoso: il Renzi 2015 è la metà del Renzi 2014 quanto a percentuale (25 contro 40,8), e dimagrisce di 2 milioni di voti in un solo anno.

Un bagno forzato di umiltà, un brusco ritorno sulla terraferma.

2) Governo. “Il governo non c’entra”, dicono il premier e i suoi. Sulla carta è vero: non si votava per Renzi (per la verità non si è mai votato per Renzi, salvo alle provinciali e alle comunali di Firenze).

Ma nemmeno un anno fa, alle Europee: eppure lui si intestò quel trionfo come un premio al suo governo, che peraltro non aveva ancora fatto nulla, se non annunciare gli 80 euro. Ora, questa è la prima elezione dopo 16 mesi di governo; e il premier e i suoi ministri si sono spesi allo spasimo in campagna elettorale. Soprattutto per le due uniche candidate renziane: la Paita, stesa da tal Toti, e la Moretti, asfaltata da Zaia.

3) Conseguenze. Nel 2000 il centrosinistra perse in 8 regioni su 15 e il premier D’Alema si dimise all’istante. Ora la situazione è diversa, ed è una sciocchezza chiedere le dimissioni del Governo.Ma anche dire che non cambia nulla. Intanto gli italiani avvertono il premier che non sono soddisfatti del suo primo anno a Palazzo Chigi, tutto chiacchiere e distintivo. Eppoi l’arroganza dell’uomo solo al comando non paga, anzi spaventa. Con che faccia Renzi riforma da solo la legge elettorale, lo Statuto dei lavoratori, la scuola, financo la Costituzione col 25% dei votanti, pari al 13 dei cittadini attivi? Chi rappresenta poco più di un italiano su 10 non può comportarsi come l’idolo delle masse.

4)Paradossi. Renzi perde nelle due regioni dove più avrebbe voluto vincere, mentre strappa alla destra l’unica regione che le avrebbe volentieri lasciato: la Campania. Lì ora gli tocca dichiarare decaduto De Luca e spiegare perché mai ha candidato e sostenuto uno che non può governare, avviando una battaglia di carte bollate destinata a screditare più Matteo che don Vincenzo.

5) Alibi. Anziché fare autocritica sui candidati sbagliati in Liguria, Veneto e Campania e sull’agenda sballata del Governo, Renzi e il suo politburo battono il mea culpa sul petto degli altri: i soliti “gufi e masochisti”della sinistra che gli avrebbero rubato la Liguria. Se questi gaglioffi sapessero far di conto, scoprirebbero che Toti ha staccato la Paita di 7 punti, mentre di suo Pastorino ha portato a casa il 4% (il resto è di Tsipras, che si sarebbe presentato comunque). E poi: se il Pd passa dal 40,8 al 25 su scala nazionale, tallonato in molte regioni e città dai 5Stelle, e perde 2 milioni di voti in un anno, sarà mica colpa dei 62 mila elettori di Pastorino?

6) Partito della Nazione. Il sogno (o l’incubo) di un partitone centrista e post ideologico tipo Dc, che si piazza al centro e catalizza voti da destra e sinistra, esiste solo nella fantasia malata di chi l’ha concepito. Gli elettori – a dispetto della pretesa giacobina di rieducarli, raddrizzando le gambe all’Italia tripolare uscita dalle urne del 2013 – continuano a dividersi in tre blocchi equivalenti: centrosinistra, centrodestra e incazzati grillini. Il che rende ancor più demenziale il premio di maggioranza dell’Italicum che regala il 55% della Camera alla prima lista, magari al di sotto del 30% dei voti validi (cioè del 15% degli elettori).

7) 5Stelle. A ridosso del Pd in diverse regioni e città, il M5S smentisce chi lo dava anzitempo per morto. Merito di alcuni suoi esponenti capaci di rendersi credibili dopo la ritirata mediatica di Grillo e Casaleggio. Ma anche merito del Governo,che alimenta la speranza di qualcosa di radicalmente diverso.

A lungo andare, però, vincere senza governare può stufare chi crede nel Movimento, che ora più che mai è a un bivio: porsi il problema delle alleanze, misurarsi con la difficile sfida dell’amministrazione e smentire la propaganda del “voto inutile”. Una sfida che potrebbe arrivare prima del previsto, se a Toti non bastassero 16 consiglieri su 30 e si rivotasse in Liguria e/o in Campania: un approccio sui contenuti con la sinistra landinian-civatian-cofferatiana pare l’unica strada.

8) Forza Lega. Salvini si aggiudica il derby con FI, ma senza Berlusconi non vincerebbe da nessuna parte, salvo il Veneto (dove però candidava il più rassicurante Zaia) e forse la Lombardia.

FI, pur al suo minimo storico, si salva dall’estinzione: che, per un partito senza leader, senza idee, senza programmi e senza senso, è già un trionfo. Quindi Lega e FI sono condannate alle nozze o alla testimonianza. E quel che resta di Berlusconi, che pure ha perso la supremazia a destra, avrà ottimi argomenti (numerici e finanziari) per contare ancora qualcosa al tavolo delle trattative con l’altro Matteo.

Berlusconi potrà “investire” un volto più giovane e spendibile di lui (non è difficile: Mara Carfagna?) e sperare che intercetti su scala nazionale quegli elettori di centrodestra che non voterebbero mai nessuno dei due Matteo (modello Liguria).

9) Sinistra. È ancora un mondo senza leader: Civati è troppo debole, Cofferati troppo“ex”,Vendola è troppo screditato. Ma, se ne trovasse uno, se magari Landini si decidesse al grande passo, troverebbe un suo elettorato, in grado anche di ringalluzzire gli antirenziani rimasti nel Pd. Anch’essi sono in cerca di un leader che non puzzi di ditta e di muffa. Ma il loro peso contrattuale da oggi aumenta: col Pd sotto il 30%, un’eventuale scissione costringerebbe Renzi a porsi un problema finora inimmaginabile: il rischio di diventare il secondo partito alle elezioni politiche.

10) Informazione. Come sempre arroccati nei loro palazzi, spesso coincidenti con il Palazzo, i giornaloni avevano capito poco o nulla. Davano Renzi perimbattibile, gli accreditavano consensi oceanici grazie alle mirabolanti “riforme”, irridevano a chiunque non baciasse la sua sacra pantofola. E lui, poveretto, ci aveva creduto.