Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano: “Le larghe pene”

di Redazione Blitz
Pubblicato il 25 Giugno 2013 - 08:27 OLTRE 6 MESI FA
La vignetta di Vauro

La vignetta di Vauro

ROMA – “Le larghe pene”, così Marco Travaglio, con un editoriale sul Fatto Quotidiano, commenta la sentenza del processo Ruby (con Berlusconi condannato a 7 anni) e l’alleanza, le larghe intese (“o pene”) tra Pd e Pdl:

Davvero qualcuno ha dovuto aspettare la sentenza del Tribunale di Milano per scoprire che B. va a puttane, preferibilmente minorenni, e abusa del suo potere e dei suoi soldi per nascondere la verità? Solo un Paese irrimediabilmente ipocrita, o disinformato, o mitridatizzato può meravigliarsi per un verdetto fra i più scontati della storia. Gli unici dubbi riguardavano la qualificazione dei reati e la quantificazione della pena. Ma i fatti erano accertati fin da subito: le telefonate notturne dello statista dal vertice internazionale di Parigi alla questura per far rilasciare Ruby sono incise nei nastri della polizia; le notti trascorse nella villa di Arcore dalla prostituta minorenne che poi se ne andava con le tasche piene di soldi sono dimostrate dai movimenti del suo cellulare; le deposizioni di decine di test, tutti dipendenti o sul libro paga di B., fra cui 4 o 5 parlamentari, un viceministro e alcune mignotte, bastava ascoltarle per capire che erano false. Che altro occorreva per farsi un’idea di quel che è successo e trarne le conseguenze? Un collegio di saggi? Un vertice di maggioranza? Un monito del Quirinale? È vero che in Italia le alte cariche dello Stato, centinaia di parlamentari e migliaia di giornalisti adorano passare per fessi. Ma lo capiscono tutti che un miliardario non si fa portare 40 ragazze a botta, fra cui diverse prostitute e alcune minorenni, pagandole 2-3 mila euro se non dormono da lui e 5-6 mila se dormono da lui, per mostrare loro la sua collezione di farfalle. E non si scapicolla nottetempo per terremotare un’intera questura, avvertito da una prostituta brasiliana, per far liberare una prostituta marocchina, coprendosi di ridicolo con la frottola della nipote di Mubarak, se non volesse tapparle la bocca su qualcosa che è meglio nascondere. Queste panzane possono reggere in Parlamento, sui giornali, in tv. Ma c’è almeno un luogo, in Italia, impermeabile alle balle: il Tribunale di Milano. E non solo alle balle. Le giudici Turri, De Crostofaro e D’Elia, insultate e minacciate dal-l’imputato B. e dai suoi sgherri, spernacchiate dalla delegazione parlamentare Pdl in marcia sul Tribunale, depistate da orde di falsi testimoni, intralciate da manovre e cavilli assortiti (ricusazioni, istanze di rimessione, legittimi impedimenti, ileiti acute e malattie immaginarie, ostruzionismi, ricorsi alla Consulta), provocate dagli onorevoli avvocati, “avvertite” dal capo dello Stato che ancora l’altro giorno ammoniva le toghe a tener conto delle conseguenze politiche dei loro atti, scippate di uno dei due reati dalla controriforma Severino e infine intimidite dall’infame clima di larghe intese che butta tutto in politica e carica i giudici di responsabilità che non possono né devono avere, hanno tenuto i nervi saldi e sentenziato sine spe ac metu. Senza lasciarsi condizionare né impressionare da niente e da nessuno. La loro sentenza smentisce in parte la Procura (il reato giusto non era concussione per induzione, ma per costrizione) e soprattutto sbugiarda la black propaganda sulla magistratura milanese succube della sinistra. Tutti sanno che il Colle e il Pd, da quando è nato il governo-inciucio, auspicavano una sentenza la più blanda possibile per tener buono il prezioso alleato ed evitare che gli elettori ricordino chi è: invece la condanna è stata più severa di quella chiesta dai pm. Una sentenza non di larghe intese, ma di larghe pene. Che però non può aggiungere nulla all’indecenza del personaggio, già ampiamente dimostrata dalle sentenze sulle tangenti alla Guardia di Finanza, sui 23 miliardi di lire a Craxi, sui fondi neri per 1. 500 miliardi di lire, sulle frodi fiscali sui film, sulla corruzione di Mills, sulle mazzette ai giudici del caso Mondadori, casomai qualcuno le avesse lette. Ora i servi, le prefiche, i tartufi e i finti tonti si domandano affranti se B. farà saltare il tavolo dell’inciucio: ma quando gli ricapita un governo dove la fa da padrone dopo avxer perso le elezioni? La vera domanda è un’altra: che ci fa il Pd al governo con uno così? Ma valeva anche prima, e nessuno la pose. In Italia si attendono sempre le sentenze e poi, quando arrivano, nessuno le legge. È il Paese dell’amnesia. Che fa rima con anestesia. E con amnistia.