Necrologi, come leggerne un milione e mezzo e conservarne 100mila

di Redazione Blitz
Pubblicato il 9 Febbraio 2015 - 13:20 OLTRE 6 MESI FA
Ha raccolto 100mila necrologi «Incredibile, nessuno muore»

Giornalista esamina 2,5 milioni di annunci funebri: la morte citata solo 472 volte

MILANO – Ha catalogato e conservato oltre 100 mila necrologi, dopo averne letto, in quasi mezzo secolo, poco meno di due milioni e mezzo, Guido Vigna, giornalista con un curriculum di tutto rispetto, oggi in pensione. In tutti quegli annunci, ha contato, la parola morte figura solo 472 volte. Nella quasi totalità “si manca, si scompare, ci si spegne, si lascia un vuoto incolmabile, si vola in cielo”.

Intervistato da Stefano Lorenzetto sul Giornale, Guido Vigna confida:

“Tengo una statistica aggiornata. Fino a stamattina, sui quotidiani avevo letto 2.424.113 necrologi”

di cui oltre 100.000 – i più poetici, i più mesti, i più stravaganti – li ha ritagliati e catalogati in cartelline che gli ingolfano lo studio nella sua casa di Mantova”.

Guido Vigna pesca nella memoria fatti di 40 anni fa, anni cupi, di terrorismo, di giornalisti ammazzati come il suo collega Walter Tobagi, di direttori superstiziosi come Cesare Lanza all’epoca al Corriere d’Informazione di Milano, che chiese a Guido Vigna di scrivergli il necrologio per la deprecata eventualità (all’epoca Cesare Lanza ammorbava amici e parenti con la predizione di una zingara che lo voleva morto prima dei quarant’anni; ora ne ha quasi il doppio ma scoppia di salute e, parole di Stefano Lorenzetto, “il quale per il momento continua a frequentare ristoranti, casinò e belle donne”). Ecco il testo:

“È morto Cesare Lanza. Nonostante la mole, è volato sino alle porte del paradiso e ora si gioca a dadi con San Pietro l’ingresso”.

Nell’occasione, ricorda Guido Vigna, Massimo Donelli, anch’egli cresciuto nella redazione del Corriere d’informazione, volle offrire un contributo più tacitiano:

“È morto Cesare Lanza. Era un uomo tutto case e famiglie”.

Il ricordo di Walter Tobagi porta una nota dolorosa in una intervista di humour nero. Walter Tobagi e Guido Vigna lavoravano

“insieme al Corriere d’Informazione. Entrambi ci occupavamo di terrorismo. Il direttore, Cesare Lanza, doveva decidere chi dei due nominare capo della redazione romana al posto di Guido Gerosa. Alla fine scelse me, distogliendomi così dalle cronache sulle Brigate rosse che costarono la vita al povero Walter”.

Squarcio su come si diventava giornalista prima dell’avvento delle inutili anzi dannose lauree in giornalismo:

“Vigna, 73 anni l’11 febbraio, avrebbe voluto fare lo psichiatra. Invece, uscito dal liceo scientifico, la zia farmacista lo raccomandò a un cliente ipocondriaco, Marco Bacchi, che di mattina insegnava nelle scuole elementari e di pomeriggio batteva le caserme dei carabinieri per Il Resto del Carlino”.

“Era il 1961. Venni ammesso come abusivo nella redazione di Mantova. Lavoravo dalle 9 alle 13 e dalle 15 alle 20, più l’eventuale turno serale. Primo stipendio: 4.000 lire mensili. Un operaio ne guadagnava 50.000”.

Tre anni dopo, Guido Vigna fu nominato vice caporedattore, la paga gli fu innalzata a 35.000. Inoltre scriveva da Mantova per Il Giorno diretto da Italo Pietra, da cui arrivava un compenso di 200.000 lire al mese:

“Come tutti i poveri, con il primo stipendio mi comprai un giubbotto di renna da ricco. Ce l’ho ancora. Perfetto”.

Si mise di mezzo il sindacato, a fin di bene:

“L’Associazione lombarda dei giornalisti mi denunciò alla Procura per esercizio abusivo della professione. Una forzatura con il lodevole proposito di costringere l’editore Attilio Monti ad assumermi. Invece il direttore del Carlino, Giovanni Spadolini, anziché regolarizzarmi, mi spedì una raccomandata con l’ordine di restituire le chiavi della redazione. Fui assolto da un pretore che si serviva nella tabaccheria di mio padre: fece ricadere i due reati nell’amnistia per il ventennale della Liberazione. Un amico mi segnalò a Giancarlo Galli, braccio destro di Leonardo Valente, direttore del nascente Avvenire, che mi assunse. Nel 1970, ancora praticante, Gianni Locatelli convinse Pietra a chiamarmi al Giorno. Stipendio triplicato. Gomito a gomito con Gianni Brera, Giorgio Bocca, Giampaolo Pansa, il più grande inviato speciale che io abbia conosciuto: il primo ad arrivare sul fatto, l’ultimo ad andarsene”.

L’epopea del Corriere d’Informazione, diretto da Cesare Lanza,

“la migliore redazione che si sia mai vista in Italia: oltre a Tobagi e Donelli, c’erano Ferruccio de Bortoli, Vittorio Feltri, Guido Vergani, Gian Antonio Stella, Gigi Moncalvo, Edoardo Raspelli, Paolo Mereghetti, Gianni Mura”.

La collezione dei necrologi ha avuto inizio col necrologio in memoria del padre:

“Portai alla concessionaria di pubblicità della Gazzetta di Mantova questo necrologio: “È morto Nelson Vigna”. Mi risposero: “Impossibile”. Volevano farmi scrivere: “È improvvisamente mancato all’affetto dei suoi cari Nelson Vigna”. Nove parole invece di quattro. Fatturavano anche le virgole».

Secondo lei, chiede Stefano Lorenzetto, le necrologie si commissionano per onorare i morti, per confortare le loro famiglie o per vantarsi dell’amicizia con il caro estinto? Risposta con esempio:

“Mariangela, Mariangela, Mariangela, Mariangela, Mariangela, Mariangela, Mariangela, Mariangela, Mariangela, Mariangela, Mariangela, Mariangela, Mariangela”, ripetuto 13 volte, con la firma Ornella Vanoni, uscito sul Corriere della Sera l’11 gennaio 2013 per la morte della Melato, che scopo avrà avuto?.
La Melato non rispondeva.
“Stando ai miei calcoli, Gianni Agnelli è il defunto italiano che ha goduto del maggior numero di partecipazioni. Su Corriere, Repubblica e Stampa nei giorni successivi alla sua morte ho contato ben 1.234 annunci, 620 soltanto sul quotidiano di famiglia. Aggiungendo Sole 24 Ore, Messaggero e Giornale, l’Avvocato ebbe più di 2.000 necrologi, compreso un imbarazzante “Fiat voluntas Gianni”, proprio perché è invalsa l’abitudine di pubblicare testi eguali su più giornali onde farsi notare”.

Nota Lorenzettto che il 20 agosto 1954, all’indomani della morte di Alcide De Gasperi, sulla Stampa si potevano leggere solo le necrologie dei signori Buratti, Giorelli, Ghirardo, Chiavarino, Trifiletti e Rastrelli. Nessuno che piangesse lo statista, manco la Fiat:

“Se penso alla caterva di annunci usciti per la morte di Giulio Andreotti…”.

Che osservazioni si possono fare sul linguaggio dei necrologi?

“È il trionfo dell’ipocrisia e la fiera delle vanità. Muoiono tutti “dopo una vita completamente dedicata alla famiglia e al lavoro”. Eppure, secondo le statistiche, 9 milioni d’italiani vanno a puttane tutte le sere. Le mogli che annunciano la perdita del marito parlano sempre di “vuoto incolmabile”, formula usata da due signore per due volte consecutive, essendo rimaste vedove appunto due volte, e da un’altra signora per ben tre volte. Frequente l’espressione “è scomparso”, anche “silenziosamente, come una bolla di sapone”. Oppure “si è spento”, memorabile nella versione in morte di una scrittrice, apparsa sul Corriere nel 2001: “Si è spenta Luce d’Eramo”. In ascesa “è nato a una nuova vita”, “si è seduto al banchetto celeste”, “ha raggiunto il silenzio perfetto”, “ha terminato il suo pellegrinaggio terreno”. Mi sono imbattuto pure in “è stato fischiato un ingiusto fuorigioco e tu sei uscito dal campo della vita” e “ha imboccato la via di mille e una cometa”. Di gran moda “già mi manchi”..

“Per chi resta in questo mondo, la morte di un congiunto è sempre inaspettata: “Improvvisamente è passata dalla vita al sonno eterno Irma Finzi vedova Finzi di 107 anni e lascia stupiti e affranti le figlie, i nipoti e i pronipoti”. Su quasi 2 milioni e mezzo di annunci funebri che ho vagliato, l’espressione “è morto” ricorreva solo 472 volte. Si preferisce “è mancato”. Ma ho raccolto anche “rien ne va plus: ti seguirò ovunque andrai”; “quando arrivi telefonaci e raccontaci com’è andato il viaggio”; “Giulia, stavolta ce l’hai fatta grossa”. In gran spolvero “che la terra ti sia lieve”, nonostante nella fossa ormai ci vadano in pochi: si preferiscono i più economici forni crematori.

“I religiosi entrano subito nella Casa del Padre. Stando ai necrologi che ho raccolto, il privilegio tocca solo a 7 defunti su 100. Gli altri 93 devono aspettare in purgatorio o finiscono dritti all’inferno, ma non si deve dire. Non parliamo poi dei nobili. Cancellati dalla Costituzione, tornano a vivere con i loro titoli, come il napoletano “Don Fabio Tomacelli Filomarino, Principe di Boiano, Duca d’Atri, Cavaliere dell’I.R.O. di San Gennaro, Balì Gr. Cr. di Giustizia del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio, Cavaliere di On. e Dev. del S.M.O. di Malta”, sul Corriere, 2003”.