Salva-Roma, Repubblica: “E Grasso finisce nel mirino di Letta”

di Redazione Blitz
Pubblicato il 27 Dicembre 2013 - 09:54 OLTRE 6 MESI FA
Alta tensione tra governo e Senato per il pasticcio sul salva-Roma

Enrico Letta e Pietro Grasso (LaPresse)

ROMA – Pietro Grasso, presidente del Senato, ha fatto inferocire Enrico Letta, primo ministro, che lo considera fra i responsabili del disastro del salva-Roma. L’accusa di Enrico Letta è che Pietro Grasso non è stato abbastanza attento e ha permesso che il decreto venisse infarcito, proprio come un tacchino, di tutte le schifezze che interessavano ai vari senatori e alle lobby.

La rivelazione è di Goffredo De Marchis, su Repubblica, il quale però non tiene in conto che Pietro Grasso, nei giorni in cui si compiva il misfatto, era a fare il turista istituzionale in Afghanistan, a Kabul, senza ragione apparente in quanto la politica estera è fuori della giurisdizione della sua carica.

Goffredo De Marchis capta la tensione fra Presidente del Consiglio e Presidente del Senato da

uno scambio di parole dette a mezza bocca perché tutti capiscono che la deflagrazione di un conflitto del genere farebbe saltare il sistema. Enrico Letta infatti commenta cercando di mantenere un equilibrio sopra la follia di un provvedimento che doveva “salvare” la Capitale e qualche altra amministrazione locale ed è stato riempito di finanziamenti a pioggia. «Va bene così — dice il premier — . Era necessario dare il segno di una volontà precisa: mettere ordine e pulizia nell’attività legislativa». Parole prudenti ma che in quel termine “pulizia” certificano lo scontro con le Camere (…)

In particolare, nel mirino dell’esecutivo c’è il Senato. Lì il decreto è stato tirato da una parte e dall’altra. I senatori ci hanno infilato di tutto, lo hanno cambiato completamente e, secondo il governo, il presidente di Palazzo Madama Piero Grasso non avrebbe vigilato abbastanza. Poteva e doveva cassare o dichiarare inammissibili gli emendamenti che non c’entravano niente con lo spirito originario della legge. I decreti devono mantenere l’omogeneità della materia, lo dice la Corte costituzionale. Se si occupano di aiutare alcuni enti locali in difficoltà non possono servire per assumere centinaia di agenti doganali, per dirne una. Si racconta di un’irritazione di Palazzo Chigi nei confronti degli uffici del Senato.

Ma al di là dei problemi parlamentari è stato il governo a mettere la fiducia sul testo uscito da Palazzo Madama. Emendamenti fuori contesto compresi. Dunque, la responsabilità cade anche sulla sua testa. Giorgio Napolitano, con la sua bocciatura, ha voluto rimarcare una sottovalutazione dell’esecutivo. Prima del suo intervento, Letta e il ministro delle Riforme Dario Franceschini avevano la possibilità di metterci una pezza: ritirando il decreto o facendolo decadere. Non è successo e la “bacchettata” del Quirinale è stata inevitabile. Anchese i pasticci, come ha precisato il Colle, erano intervenuti durante la conversione, ossia li avevano fatti i parlamentari e non il governo. Perché allora Palazzo Chigi non ha stoppato il decreto senza aspettare il Colle? Eppure i segnali che aveva ricevuto erano forti e chiari. Dalle commissioni della Camera. Dal Pd e dalla componente renziana. «Avevamo visto il pasticcio nato al Senato e lo avevamo segnalato all’esecutivo», racconta la responsabile delle Riforme del Pd Maria Elena Boschi. «Perevitare l’assalto alla diligenza i nostri erano stati anche attenti a non infilare nel decreto niente che riguardasse Firenze».

Letta dunque conosceva il pericolo. Franceschini anche. Come dimostrano le sue parole pronunciate al momento di mettere al fiducia sulla legge di stabilità. «Il governo e i due rami del Parlamento devono porsi un problema, da affrontare prima dell’approvazione dei provvedimenti, che riguarda i requisiti di omogeneità e di urgenza dei decreti legge, che secondo la Corte costituzionale valgono non soltanto per il decreto-legge ma anche per la legge di conversione », aveva detto il ministro. Si riferiva proprio al Salva Roma. La situazione è stata pesata. Non si può dire sia stata affrontata con leggerezza o superficialità. Si è tirare dritto anche per timore di un’offensiva dei 5 stelle sui deputati fannulloni e impegnati con le ferie di Natale. Perchè la fiducia doveva essere votata entro oggi, 27 dicembre. «Non c’erano marchette, come dicono i 5 stelle — spiega una fonte del governo — . C’erano risorse per l’alluvione, per il terremoto dell’Emilia. Ma la lezione è stata pesante, ci servirà per le prossime volte» (…)